Ascesa e caduta del "giornalista da romanzo"
Da "PRETEXT"
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La deriva imboccata dalla stampa negli ultimi anni ha portato a dibattere
sulla data di pubblicazione dell’ultima copia del New York Times e a fantasticare dei nuovi e brillanti
mestieri dell’informazione digitale, ma sembra aver evitato l’elaborazione di un
danno tutt’altro che collaterale e cioè la scomparsa della figura del giornalista da romanzo così come è evoluta nell’immaginario
collettivo dell’ultimo secolo (anno più, anno meno). Non è in causa la scomparsa
del giornalismo, sia chiaro, ma proprio quella del mitico inviato speciale, armato
solo di trench, penna e taccuino nelle
remote trincee del Pianeta, o del suo paradigmatico opposto, il cronista politico senza scrupoli, pronto a
ogni compromesso tra velleità di potere e ambizione sociale. Come in un giallo
perfetto, le indagini sono state minuziose e i detective si sono sfidati con
analisi e deduzioni brillanti ma si sono concentrate essenzialmente sulla crisi
dei giornali senza accorgersi del cadavere che giaceva da un pezzo in mezzo
alla stanza: quello del giornalista da leggenda e dell’aura un po’ maledetta
che ne ha accompagnato per lungo tempo le gesta.
Honoré De Balzac, in un suo
piacevole “trattato”, distingueva con un certo sprezzo tra camarillisti
parlamentari, panflettisti, fabbricatori di articoli di fondo, factotum,
nientologi, incensieri, giustizieri e molti altri. Ciascuno di essi, nel suo
aspetto autentico o caricaturale, era palesemente un personaggio da fiction
tanto quanto poteva esserlo uno scrittore boehmien o un politico
corrotto. Nel tempo le cose sono cambiate di poco: alle figure elencate si sono
aggiunti “culi di pietra”, addetti al desk, inviati di punta, editorialisti,
tuttologi e “scavafango” (come li ha definiti James Ellroy in American Tabloid),
mezzibusti televisivi, miti mediatici (da Peter Arnett a Christian Amanpour) e
infine campioni dei social network, youtuber e artisti della corrispondenza
virtuale istantanea. Anche se l'impressione è che questi ultimi abbiano
raggiunto grandi vette di popolarità ma forse non il fascino dei professionisti
delle news dell’era precedente all’avvento del Web. Senza contare il rischio di
un labile confine tra alcuni giornalisti di grande seguito internettiano e i
veri e propri influencer.
Nel nuovo mondo delle fake
news e dei troll dispensatori di verità improbabili, nessuno mette in dubbio
l’importanza delle notizie o la necessità del giornalismo investigativo. Anzi:
della cocciutaggine del cronista c’è sempre più bisogno e, tra le nuove leve,
le autentiche regole del mestiere sono forse più sentite di prima. A sua volta
il citizen journalism, che fa di ogni cittadino un potenziale scrittore
civile e una fonte d’informazioni apre senz’altro prospettive di trasformazione
assolutamente promettenti se e quando non prende la forma dello sfogo collerico
protetto dall’anonimato della Rete. Al massimo si può far notare che la caccia
alla notizia sceglie spesso la scorciatoia della frivolezza e che si è passati
con una certa disinvoltura dai dispacci di Luigi Barzini nella guerra
russo-giapponese d’inizio Novecento ai tweet di puro gossip sui seni rifatti di
qualche vip. Ma l’ossessione dello scoop resta vivissima e, se qualcuno
rimpiange il mitico reportage del caso Watergate o le interviste di Oriana
Fallaci dovrebbe ammettere che in ogni caso l'offerta giornalistica odierna è
sempre più ampia: dalle immagini proibite delle guerre più esotiche alle
inchieste sugli scandali politici e finanziari su scala locale o planetaria. Se
la competizione si è allargata e gli attori della comunicazione si sono
moltiplicati, è anche vero che è cresciuta vertiginosamente anche la
possibilità di far emergere uno scandalo o di portare all'attenzione del
pubblico le notizie più remote e inaccessibili.
E' proprio in questo passaggio
però che è stato commesso il delitto di cui sopra: la tecnologia ha ucciso a
poco a poco la figura romantica e maledetta del giornalista che ha vissuto a
lungo nella realtà e ancor più in un fervido immaginario folkloristico coltivato
da saggi, racconti, mitologie
metropolitane e dalla stessa comprensibile necessità di ognuno di noi di dare
un volto e un carattere definito (positivo o negativo a seconda delle
necessità) ai dispensatori di notizie, di opinioni e di consigli utili alla
comunità. Non è una semplice questione di conservatorismo e nostalgia. O almeno
non è solo questo. I grandi reporter di un tempo avevano, è vero, l'aria di
appartenere a una ristretta aristocrazia internazionale di raffinati reporter
della vita, ma non c'era in effetti alcuna particolare patente di nobiltà per
membri e affiliati dell'élite giornalistica. In redazione si arrivava un po' da
ogni dove e la carriera dipendeva tanto dalla bravura professionale quanto dalla
capacità di navigare tra la gestione di un direttore di giornale, le lotte tra
colleghi, gli umori del proprietario della testata e le pressioni di
imprenditori e politici di turno. Una volta dentro al giornale, la sigaretta ti
si appiccicava al labbro in un certo modo, il ticchettio della macchina da
scrivere ti accompagnava anche fuori servizio e gli abiti si raggrinzivano
inconfondibilmente insieme a un’aria vagamente maledetta.
“Mezzo secolo fa”, si legge in
Come si scrive il Corrriere della Sera, “un famoso film interpretato da
Joel MacCrea, The Foreign Correspondent ambientato nella
Germania agli albori del nazismo consegnò alla storia un’immagine romantica del
corrispondente dall’estero: un riluttante ma coraggioso detective in Borsalino
e trench dedito alla verità e alla giustizia…” Se quello era il modello dell'inviato
internazionale di celluloide, la sua versione in carne e ossa (con tanto di
impermeabile sdrucito) fu il francese Albert Londres, noto per la famosa frase
con cui abbandonò il giornale per cui scriveva: “Signori continuo a credere che
un giornalista debba seguire una sola linea, quella ferroviaria”. Fu inviato
tra l’altro nella Ruhr occupata dai francesi nel 1923 e nel 1929 partì alla
scoperta delle comunità ebraiche europee, per incarico del quotidiano "le
Petit Parisien". L'inchiesta lo portò da Londra alla Russia subcarpatica,
poi in Transilvania, in Bessarabia, in Bucovina, in Galizia, dove visitò ghetti
e insediamenti ebraici misconosciuti, raccontando le drammatiche condizioni di
vita, la diffusione del sionismo alla vigilia dell'Olocausto e infine la fuga e
l'emigrazione sulle navi della diaspora verso la terra promessa in Palestina.
Ma per capire come nasce la
figura antropologica del reporter d’antan occorre tornare appunto al romanzo
perché della fiction il giornalista è stato spesso tanto il protagonista quanto
l'autore. Si pensi all’Arthur Pendennis di William Thackeray, autore
della Fiera delle vanità e pungente articolista del Punch. E
questo è in fondo naturale se si pensa quale straordinario concentrato del suo
tempo rappresenti il giornalista: un perfetto campione della realtà perché,
attraverso di esso, la possibilità di descriverla si moltiplica magicamente, a
seconda della parte del mondo di cui il pennivendolo, o il suo giornale, si
occupano (dai gatti caduti dal tetto alle massime questioni internazionali,
dalla cronaca finanziaria e politica alle rubriche per cuori infranti).
Indimenticabili i giornalisti
descritti da Dickens nel Circolo Pickwick come Boz, osservatore e
caricaturista umoristico della vita borghese inglese. Dickens, non a caso,
prima di diventare il più famoso romanziere dell’età vittoriana, era stato
cronista parlamentare, dopo aver trascorso quell’infanzia misera e infelice che
rievocò in parte in Oliver Twist e David Copperfield, con il
padre in carcere per debiti, e lui costretto a lavorare in fabbrica e poi come
commesso. Ci sono poi i personaggi di Anthony Trollope e Thomas Hardy, quelli
caricaturali e quelli brutalmente rapiti dalla realtà, come i personaggi di Henry
Fielding; il Lucien Rubempré delle Illusioni perdute di Balzac o
il Bel Ami di Maupassant (entrambi individui senza scrupoli ma in fondo
oggetto di una malcelata ammirazione degli stessi autori di fronte alla rapida
ascesa sociale, o alla discesa agli inferi, dei rispettivi personaggi). Tra i
due il secondo, il bel Duroy (“una canaglia descritta da una canaglia”, secondo
la definizione di Henry James), è forse l’esempio romanzesco più felice del
dongiovanni interessato che fonda la sua arrampicata tra giornalismo politica
su amori e favori di vario genere. Dalla conquista di Madame Walter, la moglie
del padrone del suo giornale fino alla seduzione dell'adolescente Susanna,
figlia del milionario Walter e della sua stessa ex amante, sembra riuscire a
conservare "una specie di spontaneità… quasi un'ombra di primitiva
innocenza".
Di altra pasta, almeno nelle
intenzioni dell'autore, sono i redattori dell'omonima commedia di Gustav
Freytag (i redattori dell' “Unione” e del “Coriolano” i giornali rivali di una
città di provincia, in periodo elettorale, autentiche macchiette come Kämpe,
che redige gli articoli di fondo, Körner che scrive le corrispondenze
dall'estero, stando in redazione e il capo Bolz, che detta a un certo punto un
perfetto ritratto dello spirito dei gazzettieri: “Chi appartiene alla nostra corporazione
ha l'ambizione di apparire scrittore umoristico o scrittore di polso; il resto
non c'importa. Noi giornalisti ci alimentiamo dei fatti del giorno; tutte le
pietanze che Satana manipola per gli uomini dobbiamo assaggiarle. Chi lavora a
un'opera giornaliera non è forse giusto che finisca con l'adattarsi a vivere
giorno per giorno? E noi ronziamo come le api, sorvoliamo in ispirito il mondo,
suggiam miele dove ne troviamo, ma dove qualcosa ci irrita piantiamo il
pungiglione. Una simile vita non è certo fatta per produrre grandi eroi; ma è
pur necessario che ci sian tipi della nostra specie.”
Matteo Cantasirena,
personaggio della Baraonda di Gerolamo Rovetta (1851-1910) è un “tipico
profittatore del patriottismo.” Furbo, intrigante, invadente, e talora - quando
il denaro corre - a suo modo, generoso e prodigo, il commendatore Cantasirena,
bell'uomo dalla barba bianca, dall'aspetto autorevole, dagli occhi buoni, dal
tratto affabile e paterno, fa il giornalista, a tutto adattandosi pur di
procurarsi denaro: così presta la sua penna per poco eroici servigi di
carattere elettorale e soprattutto sfrutta abilmente l'umana vanità adulando
gli uomini “che han fatto l'Italia”.
Poi viene il tempo dei più
sofisticati o più scafati “violinisti da bordello” del Novecento, come il
Fowler corrispondente in Indocina nell’Americano tranquillo di Graham
Green, i deuteragonisti de I giornali di Henry James (vittime del moloch di
Fleet Street) o ancora Mister Flack, che ne Il Riflettore di James è il
corrispondente mondano dell’omonimo giornale scandalistico che ai propri fini
carpisce a un’ingenua ragazza indiscrezioni sull’aristocratica famiglia del
fidanzato, gli scrittori rivali dell’Informazione di Martin Amis o
l’ubriacone Peter Fallow nel Falò delle vanità di Tom Wolfe.
Lasciando da parte molti altri
possibili esempi – come gli scenari mai troppo fantapolitici di George Orwell (1984), dove al redattore si sostituisce
di fatto un funzionario del ministero della Verità, addetto alla correzione dei
vecchi numeri del Times - una piccola indagine comparativa potrebbe mettere in
rilievo come, alla graduale diminuzione della stima nei confronti
dell’“impiegato della notizia”, corrisponda un crescente livello d’ironia nella
sua descrizione, in tutte le possibili sfumature del caso: dal forte realismo
descrittivo di un Balzac all’umorismo canzonatorio fino alla feroce satira di
costume. Su questo versante gli autori anglosassoni sono stati molto efficaci:
dall'esilarante Psmith di Wodehouse,
deciso a trasformare la testata “Dolci Momenti” in una rivista d’assalto e di
ruvida denuncia sociale e l’inviato Mister Boot creato dalla penna di Evelyn
Waugh. E sul tema ha scritto magistralmente anche Mark Twain in un paio di
racconti: Come fui redattore di un giornale agrario e Giornalismo nel
Tennessee.
L’Inviato speciale di
Waugh merita un piccolo approfondimento. Di origini agiate ma non
aristocratiche, pittore mancato, allevato a Oxbridge e nutrito del suo pedante
conformismo, Waugh vive la fine dell’età vittoriana, il declino dell’Impero
coloniale britannico e la tragedia della grande guerra. “Nel 1935” racconta,
“ci fu l’invasione dell’Abissinia da parte degli italiani. Tornai in Africa
nelle vesti di corrispondente di guerra (per il “Daily Express” ndr). Per
quanto poco sul serio potessi prendere il mio compito e anche le arie dei miei
colleghi, avevo pur sempre indosso la livrea dei tempi nuovi… Ma le speranze di
allora si sono rivelate sciocche ingenuità”. E’ allora e in quei luoghi che
iniziano a intrecciarsi i suoi destini con quelli del protagonista dell’Inviato
speciale, William Boot, placido corrispondente di argomenti botanici e
bucoliche amenità venatorie dalla provincia inglese. Il signor Boot viene
infatti richiamato dall’editore a Londra e scambiato per uno scrittore emergente
a causa di una delle più classiche omonimie e spedito, suo malgrado, a seguire
una crisi internazionale in un luogo, l’immaginaria (ma non troppo) Ismaelia -
che non poteva rivelarsi in alcun modo più distante da lui.
C’è una celebre legge del
pessimismo (più precisamente la legge di Fuller teorizzata dall’umorista Arthur
Bloch) secondo cui più lontano accade una catastrofe o un incidente, più alto
deve essere il numero di morti e feriti perché faccia notizia. A Ismaelia, in
verità, la guerra non è ancora scoppiata, ma i rumors sono sufficienti per
scatenare coorti di affilati ‘imbrattacarte’. Boot, che arriva da un mondo
incantato che assomiglia molto alla corte di Blandings dipinta dalla fantasia
di Wodehouse, farà in fondo quello che ognuno si aspetta da un buon giornalista
– come diceva Longanesi - “che ci spieghi benissimo quello che non sa”. E
grazie all’antica legge dell’antimeritocrazia, il nostro perfetto antieroe
s’innamora (non ricambiato) della consorte di un geologo in missione e, grazie
alla propria inettitudine, scopre infine un tentativo di colpo di Stato
sfuggito ai colleghi di mezzo mondo.
Fin qui abbiamo i giornalisti
di carta stampata; ma ci sarebbero anche quelli disegnati, eroi dei comics come
Clark Kent, alias Superman, che lavora come redattore al “Daily Planet” e che
non casualmente ha lasciato ultimamente la prestigiosa testata per tenere un
blog in proprio. Ma un capitolo fondamentale del grande romanzo del
giornalistico è quello di celluloide. "E' la stampa, bellezza!"
secondo una delle citazioni più abusate di sempre. A pronunciarla nel film L'ultima
minaccia di Richard Brooks è il direttore, Humphrey Bogart, facendo
ascoltare all'interlocutore che ha al telefono il rumore delle rotative. Ma le pellicole
che hanno contribuito a costruire la leggenda sono molte: da Piombo rovente di
mackendrick a L'asso nella manica con Kirk Douglas; da Quarto potere
di Orson Wells a Prima Pagina con Walter Matthau e Jack Lemmon, dall’Asso
nella manica di Wilder a Qualcosa di personale con Michelle Pfeiffer
e Robert Redford; da Tutti gli uomini del presidente di Alan Pakula a Insider
con Al Pacino e Russell Crowe; da Quinto potere di Sidney Lumet a Dentro
la notizia con William Hurt; da Professione reporter di Antonioni a Un
anno vissuto pericolosamente con Mel Gibson; da Accadde una notte
con Clark Gable e Claudette Colbert a Sesso e potere di Levinson con
Dustin Hoffman, dove viene inventata una guerra in Albania per distrarre le
attenzioni del Paese sullo scandalo sessuale che coinvolge il presidente; fino
al più recente Goodnight, and good luck di e con George Clooney che
veste i panni e rievoca le gesta dell'integerrimo reporter Edward Murrow
conduttore della Cbs che si oppose alla caccia alle streghe comuniste del
senatore McCarthy.
Un elenco pressoché sterminato
di lungometraggi che hanno di volta in volta issato i giornalisti nell’empireo
celeste o liquidato le loro controfigure cinematografiche nella feccia degli
arrampicatori corrotti, pronti a tutto per una conduzione serale del tg.
Raramente una via di mezzo: martiri della libertà d’informazione con i muscoli
di Stallone e il profilo di Redford o corrotti, piccoli truffatori e
faccendieri al servizio di sporchi interessi e pericolose collusioni.
La realtà, per chi abbia
minimamente frequentato le trincee del giornalismo odierno (e con buona pace
del grande Kapuscinski, o meglio del titolo di un suo libro, secondo cui Il
cinico non è adatto a questo mestiere, rischia di essere un po’ più
complicata e meno romantica se si pensa agli infiniti compromessi (politici e
non) o alle inevitabili banali meschinità commesse non in pieno Territorio
Comanche (come Arturo Pérez-Reverte definisce trincee di guerra e frontiere
pericolose) ma nella penombra di redazioni, circoli bocciofili e varie stanze
dei bottoni.
Oggi il reporter di un tempo, ammesso naturalmente ci sia stata davvero una
corrispondenza tra lui e la sua idealistica versione da romanzo, non sopravviverebbe a lungo a modi e tempi del nuovo mondo a
realtà aumentata e a vorticoso rimo di obsolescenza. Resuscitarlo naturalmente servirebbe
a poco ma ricordarne il valoroso servizio sul vasto fronte della cultura
occidentale è doveroso e ogni piccola lezione di storia in fondo rischia sempre
d’insegnare qualcosa.