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4.27.2020

ANATOMIA DEL CRETINO

Fruttero e Lucentini, maestri di editoria e antropologi dei vizi nazionali




da PRETEXT
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“Io e Franco siamo come Rimbaud, una sola anima di poeta, con questo piccolo problema tecnico di essere in due.” Carlo Fruttero non abbandonava l’ironia nemmeno quando parlava - seriamente - del sodalizio letterario che lo legava a Franco Lucentini: “Non c'è scrittore che non vorrebbe essere al nostro posto: perché possiamo dirci esplicitamente quello che gli altri sono costretti a pensare tra sé e sé.”
“La ditta” di F&L ha segnato un’epoca dell’editoria italiana: i due soci sono stati scrittori di successo, editorialisti di costume per quotidiani, collaboratori di riviste letterarie, autori di radiodrammi e cronache satiriche, hanno condotto trasmissioni televisive (con titoli naturalmente paradossali come “L’arte di non leggere”) e hanno militato soprattutto a lungo all’interno di alcune grandi case editrici italiane, come redattori, traduttori di Borges e Beckett, come editor, direttori di collane (per un ventennio alla guida di Urania), coltivando anche generi ritenuti un tempo “minori” come la fantascienza o la narrativa per ragazzi. Un grande e originale “lavoro culturale” di cui si ritrovano tracce abbondanti nel meridiano Opere di bottega, o nel manuale involontario I ferri del mestiere curato da Domenico Scarpa.
Come in ogni coppia affiatata le diversità superavano di gran lunga i tratti comuni: “Se Lucentini farfugliava con voce da basso, Fruttero parlava con il tipico falsetto piemontese” come ha scritto Pietro Citati, “se Lucentini leggeva l'Iliade e la Bibbia e i Nibelunghi e il Don Chisciotte, l'Eugenio Onegin e le saghe islandesi nel testo originale, Fruttero li leggeva in traduzione: se Lucentini si era laureato con 110 e lode, Fruttero non fece nemmeno un esame universitario.”
Quando passarono da Einaudi a Mondadori Italo Calvino scrisse di Fruttero: “Uno dei nasi più fini e meno indulgenti dell’editoria italiana, ora ahimè convertitosi, per scettico snobismo, alla cultura di massa». Di chi fosse davvero lo snobismo è discutibile ma sicuramente Fruttero e Lucentini dalla cultura di massa erano attratti, perché curiosi, fuori dai canoni e lontani da ogni forma di elitarismo.  È così in fondo che sono diventati studiosi raffinati e implacabili dell’italianità, antropologi emeriti dei vizi del Paese che hanno raccontato anzitutto con l’arma della satira, anticipando di fatto comportamenti ed eccessi oggi arrivati a livelli di guardia a partire dall’irrefrenabile impulso all’esibizione della stupidità che nell’era dei social network è diventata ormai la regola più che l’eccezione. Perché, come scrivevano profeticamente, “fra i tanti pudori che negli ultimi anni sono venuti a cadere in favore di belle franchezze gluteo-mammarie, ciclosanitarie, ascellari, intestinali, sessuali, psico-trivellanti e lagno-narcisistiche, bisogna mettere anche il pudore che un tempo l'uomo trovava nei riguardi della propria stupidità. Alla scomparsa di questo pudore F&L dedicarono Il cretino in sintesi, trattato definitivo su una delle figure dominanti della nostra società, nonché quarto volume antologico di una serie fortunata iniziata nel 1985 con La prevalenza del cretino, continuata poi con La manutenzione del sorriso e con Il ritorno del cretino.
La raffinatezza letteraria di quella guida all’idiozia del genere umano va di pari passo con la comicità irresistibile che diventa tragedia attraverso una storia del costume implacabilmente  mordace: se Vico diceva che la madre dei cretini è sempre incinta, gli autori ne trovano testimonianza continua nella storia antica e recente, parodiando l’accaduto o limitandosi a ricreare dialoghi di inarrivabile scemenza ascoltati forse dalla propizia postazione di una panchina torinese.
Inutile stupirsi dell’attualità che buona parte del “trattato” continua ad avere. Basta leggersi il dizionario di politica riportato alla fine del libro: dove dall’interim ai ribaltoni e all’antitrust nulla sembra cambiato nell'arte del governo e dell’obbrobriosa assurdità del gergo che vi impera. In qualche impietoso ritratto di personaggi del passato si può tranquillamente riconoscere qualche cretino contemporaneo assurto a protagonista della vita pubblica, perché - come è scientificamente dimostrato - la stupidità cresce man mano che si sale nella gerarchia sociale, che si arriva a una poltrona di rilievo e ci si occupa di questioni di vita o di morte in modo non poi molto differente da come si parla del tempo e della fine delle mezze stagioni. Del resto, come si legge in una chiosa della fatica enciclopedica, “la forza vincente del cretino sta nel fatto di non sapere di essere tale, di non vedersi né mai dubitare di sé. Colpito dalle lance nostre o dei pochi altri ostinati partecipanti alla giostra, non cadrà mai dal palo, girerà su se stesso all'infinito svelando per un istante rotatorio il ghigno del delirio.”
F&L smontano metodicamente il castello dei luoghi comuni costruito meticolosamente dalle folle di emuli di Bouvard e Pécuchet, gli “eroi” di Flaubert, picconano il muro degli idoli intoccabili del politicamente corretto, mostrando come solo l’ironia possa in fondo alleviare le ferite di un flagello che appare inevitabile. Un metodo scettico che ritroviamo in altre scorribande umoristiche dei due autori che hanno “celebrato” l’idiozia nazionale come Il significato dell'esistenza, romanzo d'appendice pubblicato sul Giornale nel 1974 e destinato a insinuare dubbi universali tra i lettori di ogni fede politica, religiosa o calcistica. Ma cosa spinse F&L, reduci allora dal grande successo editoriale de La donna della domenica, a mettersi sulle tracce della bistrattata e negletta Verità? Tutto nacque, come ricorda nel prologo la coppia torinese, da una proposta di Indro Montanelli che li convocò e propose loro un viaggio in Grecia e un reportage turistico-classicheggiante, destinato ad apparire a puntate sulle colonne del neonato quotidiano.
Ai nostri bastò un rapido consulto per rilanciare la posta: sarebbero partiti, sì, ma con l'ambizione di svelare nientemeno che il mistero dell'esistenza. «Trovatemelo e portatemelo qui», intimò il direttore. E così l'epica impresa ebbe inizio. Non senza ostacoli naturalmente: il senso della vita è materia scottante. Tanto che nella vicenda entrano in gioco un ente per la ricerca filosofica con diciottomila dipendenti, mentre la Fiat decide di mettere in busta paga un'indennità metafisica e i comunisti chiedono di sottrarre all'iniziativa privata l'esclusiva della manovra speculativa sul destino. Per assicurarsi l'alta posta in palio scendono in campo Cefis e Fanfani. Ma nemmeno l'offerta di un sostanzioso pacchetto d'azioni della «Standard Oil Company» riuscirà a distrarre l'incorruttibile coppia della caccia all'inconoscibile.
Segue così un lungo viaggio a bordo dell'Orient Express, foriero d'incontri indimenticabili: un pastore anglicano con un irresistibile attrazione per i capistazione, il corrispondente filosofico del Times (noto per aver sventato un vergognoso traffico di monadi leibniziane) e una misteriosa quanto splendida signorina, originaria di Zandobbio, in provincia di Bergamo. A Micene ecco i primi indizi: «Vasti giacimenti di fato, di una densità da tagliarsi col coltello». Ma la tappa decisiva è Delfi, l'antica città dell'oracolo che l'era del turismo di massa ha trasformato nel frattempo in un'invereconda fiera del vaticinio, popolata da maghi, chioschi del tarocco o dei fondi di caffè e distributori automatici di sentenze profetiche. Ma l’accesso all'oracolo della Pizia è sbarrato per «Lavori in corso». Riusciranno gli intrepidi inviati a portare a casa lo scoop del secolo, l’intervista con la Sibilla, dea della saggezza?
Quel libro racconta gli italiani di ieri e di oggi più molto più di corposi studi sociologici così come L’Italia sotto il tallone di Fruttero e Lucentini, romanzo fantapolitico sulle gesta autobiografiche dei due letterati che dalla Libia di Gheddafi marciano su Roma per prendere il potere in una sorta di parodia del fascismo. Un monito “ilarotragico” per l’oggi quanto la diagnosi della stupidità imperante. Perché, la storia insegna, non si dà regime senza l’aiuto di una buona dose di cretini in circolazione.



4.10.2020

IL ROMANZO DELLA SCIENZA

Il “big bang” della saggistica narrativa




DA PRETEXT
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Immaginate un bambino timido e impacciato che scopre per la prima volta la tavola degli elementi di Mendelev nel silenzio del museo della scienza di Kensington. Perché ne rimanga segnato in modo inequivocabile occorre forse dare per presupposto un interesse spontaneo del ragazzo per la chimica, o più in generale per le materie scientifiche. Ma non c’è dubbio che, se quell’interesse non fosse stato coltivato grazie allo zampino di un mentore molto speciale come lo zio Dave, quel bambino non sarebbe diventato l’Oliver Sacks che conosciamo e non avremmo oggi la fortuna di poter leggere oggi i suoi libri come Zio Tungsteno, appunto, Risvegli e L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Tutti esempi di una divulgazione scientifica in chiave narrativa e autobiografica che ha contribuito a rendere affascinanti temi e trattazioni un tempo apparentemente aridi per molti lettori. 
Sul fronte della divulgazione Sacks ha segnato una piccola  rivoluzione insieme ad autori come Konrad Lorenz (tra i primi, L’anello di Re Salomone è del 1949), Stephen Jay Gould (Il pollice del panda), Paul Davies (Come costruire una macchina del tempo) e altri “pionieri” che hanno fatto ricorso al fascino delle storie e al ritmo di una fiction per svelare i misteri dell’universo, avvicinarci a teorie complesse o schiuderci mondi ancora lontani benché studiati a scuola tra lezioni mandate a memoria e formule indigeste. Non si tratta quasi mai di “saggi che si leggono come romanzi”, come si usa dire spesso un po’ sbrigativamente soprattutto nella propaganda editoriale, ma di veri e propri saggi che richiedono comunque una buona cultura di base e grande attenzione per ogni approfondimento del caso ma che dalla letteratura d’intrattenimento prendono a prestito tutti gli strumenti necessari a coinvolgere il lettore e istruirlo al meglio: ricostruzioni d’ambiente, dialoghi fittizi tra protagonisti reali, metafore, suspense e non solo.
Una delle chiavi principali per accompagnare il lettore alla scoperta della fisica, della biologia e di altre scienze più o meno “dure”, è quella autobiografica. Per tornare a Sacks, il modo con cui sceglie di schiuderci il magico universo della chimica è appunto quello di raccontare se stesso nella Londra degli anni Quaranta, vista attraverso gli occhi e l’immaginazione di un ragazzo alla scoperta del mondo. Un mondo dove ha un fondamentale ruolo di guida lo zio Dave, detto zio Tungsteno proprio per la sua passione nei confronti di quel materiale, che usava fabbricare in forma di filamenti di polvere o di barrette solide. Grazie a lui, Oliver scopre la storia della chimica attraverso esperimenti affascinanti e avventurosi che lo portano a conoscere praticamente le teorie di Boyle, Lavoisier, Avogadro, Curie e molti altri. Un’iniziazione importante che ha lo attrae per la schematicità di una disciplina caratterizzata da un ordine immutabile, ma anche per il suo opposto e cioè per la loro capacità di richiamare il sogno e forse la magia dell’alchimia dei tempi antichi.
Così quando all’età di soli quattordici anni lo stesso Sacks si rende conto che la chimica "naturalistica" e romantica dell'Ottocento, da lui tanto amata, è finita, e deciderà di fare il medico, seguendo la tradizione di famiglia, le radici di quella “gioventù chimica” (questo il sottotitolo dell’edizione originale), insieme al ricordo dello zio, in qualche modo continueranno a influenzarlo anche nella scrittura, che insieme alla medicina diventa il suo vero motivo di vita. Perché, a rileggere ogni libro di Sacks alla luce di questo, è evidente come il suo bisogno di esorcizzare le paure e i fantasmi della vita attraverso la scrittura, sia frutto proprio di quel suo passaggio iniziale dalla semplicità degli elementi chimici alla complessità e al caos di un mondo dove la normalità è sempre l’eccezione.
Il fascino delle storie personali scatta quindi anche quando le gesta narrate sono quelle di uomini straordinari ma sconosciuti al grande pubblico e anche se sono raccontate in terza anziché in prima persona. A differenza delle tradizionali biografie dei mostri sacri della scienza come Galileo o Pasteur in questo caso tende a prevalere la capacità dell’autore di ricostruire un’esistenza drammatica e di utilizzarla a fini divulgativi. E’ il caso di libri come L’uomo che amava solo i numeri di Paul Hoffman e Il genio dei numeri di Sylvia Nasar (forse più noto al grande pubblico nella sua versione cinematografica che riprende il titolo originale del testo, A Beautiful Mind). Sono le storie di Paul Erdos e John Nash, entrambi geni della matematica ed entrambi mai del tutto a loro agio nell’esistenza e nel contesto sociale in cui si sono trovati a vivere. Erdos non aveva moglie e figli, aveva un suo vocabolario particolare, considerava morto chi non si occupava di matematica e viveva la propria felicità solo all’interno del suo mondo dei numeri. Lo accompagnava una sola borsa con cui girava il mondo prima di suonare la porta di qualche conoscente e pronunciare una frase divenuta celebre “My brain is open” (che ha dato il titolo a un’altra sua biografia).
Nel 1999 la pubblicazione di Longitudine. Come un genio solitario cambiò la storia della navigazione di Dava Sobel, e il successo che ne è seguito, hanno segnato una tappa decisiva nell’affermazione della “scienza in forma di romanzo” e dell’idea di “portare in scena” grandi scoperte scientifiche attraverso personaggi e avvenimenti storici apparentemente secondari. Nei Paesi anglosassoni, dove ogni tendenza editoriale ha subito un nuovo termine di riferimento, si è iniziato a parlare di narrative non fiction. E gli esempi su quella traccia si son moltiplicati in fretta: L’ultimo teorema di Fermat di Simon Singh, La misura di tutte le cose di Ken Alder, che ripercorre le vicende dei due astronomi che in piena Rivoluzione francese misero le basi per i moderni sistemi di misura fino ad esempi più recenti, o in Italia in tempi recenti L’incredibile cena dei fisici quantistici di Gabriella Greison con protagonisti eccellenti in questo caso - Albert Einstein, Niels Bohr, Marie Curie - ma con un unico ideale setting teatrale per l’intera lunghezza del libro: il congresso Solvay a Bruxelles del 1927.
Ma c’è un altro stratagemma introdotto dalla saggistica narrativa ed è quello di calare il soggetto scientifico nella vita di tutti i giorni per mostrarci come sia più vicino a noi di quanto non pensiamo. Vi siete mai interrogati sulle origini dell’universo sorseggiando un caffè macchiato al bar di buon ora? Probabilmente no eppure un collegamento esiste e prende il semplice nome di schiuma. Nel suo La teoria del cappuccino Sidney Perkowitz spiega come una struttura a bolle caratterizza anche la birra, il pane, la panna, il polistirolo e persino la nostra ossatura. Lieve come una piuma e insieme incredibilmente intricata, la schiuma affascina da sempre pittori e poeti. Le sue geometrie rappresentano una sfida irresistibile per gli scienziati: i fisici stanno scoprendo che il big bang è forse il risultato di un’oscillazione della «schiuma quantistica», gli astronomi ipotizzano che la struttura attuale dell’universo sia costituita da bolle gigantesche; senza dimenticare che i biologi ritengono che la schiuma abbia avuto un ruolo fondamentale nella nascita della vita e nella creazione delle prime membrane cellulari. Con esemplare chiarezza, insomma, l’autore esplora le varie sfaccettature della «scienza della schiuma».
L’idea di una scienza alla portata di tutti (o quasi), di una divulgazione scientifica seria ma semplificata ad uso dei non addetti ai lavori, non è recente ma la sua declinazione in varianti sempre più fantasiose è sempre più all’ordine del giorno. Al suo barbiere Einstein la raccontava così recita il titolo di un volume di Robert L. Wolke, professore di Chimica, che offre risposte concise e illuminanti sui classici misteri del mondo fisico. Perché il mare è blu? Perché gli uccelli non restano fulminati sui fili dell’elettricità? O come può funzionare, per esempio, un orologio collegato con alcuni fili a patate o ad agrumi come le arance?

Benedetto Croce si vantava di non intendersi di scienze e l’opposizione forzata tra cultura umanistica e ha fatto sicuramente molti danni nel nostro Paese ma, almeno sul fronte editoriale, quell’era sembra definitivamente tramontata. Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli è stato uno dei libri di saggistica più diffusi in Italia negli ultimi anni e la storia di come si è arrivati per la prima volta a calcolare la longitudine è diventato il capostipite, a volte involontariamente colpevole, di un’intera genia di libri che vi hanno fatto riferimento senza rispondere in realtà agli stessi requisiti. Certo, trovare scienziati dotati di una buona capacità di scrittura non è cosa semplice, ma i casi di Richard Feynman (Sei pezzi facili) e Richard Dawkins (Il gene egoista) sono ormai sempre meno isolati. E molti giornalisti scientifici non sono meno accurati e preparati nello sciogliere i grandi enigmi della vita sulla terra o dello spazio infinito. E chissà che la saggistica narrativa non contagi prima o poi anche la scuola rendendo più attraenti materie ridotte spesso alla collazione di numeri e assiomi. Senza spaventarsi di fronte a un libro dedicato alla Fisica di Star Trek (da Lawrence Krauss) solo perché richiama avventure fantascientifiche e ozi televisivi. Potrebbe risultare molto più utile - e non solo piacevole - di molti saggi accademici.