Le radici letterarie di un artista lontano dai canoni
Artista geniale, fuori da ogni canone del Novecento, Saul Steinberg ha sempre mostrato una certa diffidenza nei confronti della parola e della scrittura che riteneva ambigue nel significato, a volte superflue, e in fondo inutilmente complesse. A differenza del disegno, s’intende. Quantomeno del suo.
Un paradosso per chi come lui ha esercitato una forte e lunga influenza nel mondo editoriale e letterario, delle riviste e dei libri (forse ancor prima che nel mondo dell’arte). Le sue illustrazioni per “Life”, “Time” e “Harper’s Bazaar”, le celebri copertine del “New Yorker”, sono entrate nel nostro immaginario e non ne usciranno facilmente. Come nel caso dell’iconica View of the World from 9th Avenue, la mappa stilizzata degli Stati Uniti visti dalla riva del fiume Hudson a Manhattan.
Ma una ragione
c’è. A pensarci bene con i suoi disegni in bianco e nero, Steinberg ha
inventato a sua volta una forma di scrittura alternativa, un linguaggio
fantastico di segni essenziali e di comprensione universale (a differenza di
quello tradizionale, osteggiato). Le sue invenzioni ironiche, i suoi personaggi
stralunati, i paesaggi urbani e le composizioni più varie, nella loro
essenzialità, corrispondono quasi a ideogrammi, segni grafici semplici e
originali capaci di rappresentare idee, di raccontare paesi e costumi, di
indagare luoghi e pensieri, di scatenare l’immaginazione. Non a caso diceva di
sé: “So sei lingue ma la mia vera lingua è la linea”.
Secondo il critico
d’arte Harold Rosenberg Steinberg era “uno scrittore d’immagini, un architetto
del linguaggio e dei suoni, un progettista di trame filosofiche. Grazie alla
sua passione per la penna, la matita e l’inchiostro e alla complessa natura
intellettuale dei suoi prodotti si potrebbe pensare a Steinberg come a uno
scrittore, per quanto unico nel suo campo.”
Sembrava pensarla
in modo simile il semiologo Roland Barthes: “Sto lavorando su Steinberg,
studiando più attentamente possibile il dettaglio del suo lavoro. Sollevo la
testa, rifletto e lascio libero quello sguardo interiore che è la memoria. Ora
so che cos’è per me la sua opera: un testo.” E aggiungeva: “Una sua tavola è 1)
da leggere 2) da indovinare 3) da… Da che? Percepiamo che è richiesta una terza
operazione che supera le altre due ma non sappiamo che cos’è.” Una linea interpretativa
su cui ritroviamo anche Adam Gopnik quando afferma che “quel che fa Steinberg è
rendere visibili le costruzioni della mente, concepire metafore e idee astratte
e materializzarle in disegni.”
Steinberg, del
resto, prima ancora di avere dei mentori nel mondo dell’arte - tra tutti
Picasso, Matisse e Pollock - rivendicava l’ispirazione a scrittori come Joyce e
Nabokov. Non a caso emigrati come lui, che arrivava da una famiglia ebraica
rumena e, dopo una lunga tappa a Milano, dove aveva studiato architettura e
iniziato a disegnare per “Il Bertoldo”, si era stabilito finalmente negli Stati
Uniti. Nabokov lo conobbe, oltre a leggerlo, e fu sempre affascinato dalla sua
biografia. Collaboravano tra l’altro entrambi al “New Yorker”. Quanto a Joyce basti ricordare che si fece
festeggiare a lungo il 16 giugno anziché nella data del suo compleanno: e cioè
“Bloomsday”, il giorno delle peregrinazioni dell’eroe dell’Ulisse.
Figlio
di un tipografo e rilegatore di libri di Bucarest, Saul si considerava un buon
artista ma uno “scrittore mancato”. Non perché non fosse dotato in quel campo
ma perché sentiva di non poter eccellere come avrebbe voluto. In ogni caso
leggeva moltissimo ed era affascinato dalla lingua in traduzione: un tratto
comune ad autori “in esilio” e segnatamente anche agli amati Joyce e Nabokov.
Confessò in una lettera: “Ho letto Anatole France in italiano, Hemingway in
francese (abbastanza divertente), I promessi sposi in inglese e una
volta nel 1927, ho trovato Les precieuses ridicules in Yddish.”
Tra le opere di
una vita, oltre ai disegni, si conserva una libreria realizzata in legno con
cinquantasei finti volumi disposti sugli scaffali, tredici dei quali, non a
caso, appaiono in traduzione: The Nose di Gogol, Il libro della
giungla di Kipling, Le petit arpent du bon dieu di Caldwell,
Crima si pedeapsa di Dostoevskji. “In questi giorni sto realizzando
una libreria in legno” scrive all’amico Aldo Buzzi. “Libri russi in rumeno,
libri francesi in italiano. Una sorta di autobiografia...”
“Di
solito” confessava Steinberg, “mi trovo meglio con gli scrittori che coi
pittori, con i quali la conversazione è difficile. Con Saul Bellow si parla
bene: ha un grande bagaglio di nozioni e conoscenze inutili, di nonsense.” Secondo lo stesso Bellow, tra l’altro,
l’autore per cui Steinberg sentiva più affinità era Cechov. Conosceva i suoi
racconti, le sue opere teatrali, i suoi epistolari e aveva letto molti dei suoi
biografi. Lo scrittore russo aveva attraversato la Siberia per conoscere in
prima persona la realtà dell’impero zarista. E durante la Seconda guerra
mondiale anche Steinberg era stato in missione in un grande ex impero, quello
cinese.
Tra i molti
scrittori affascinati dalla sua lingua disegnata ci fu Italo Calvino che così commentava
un suo disegno: “Il signor S sostiene di aver visto il presente. Passeggiava
fuori dalla sua casa di campagna d’inverno, nei prati. Abbassa lo sguardo e lì
per terra c’era il suo presente di quel preciso momento, tutto intero, l’hic
et nunc immobile come fosse congelato… Com’era fatto? Mah, era l’incrocio
di linee.”
Arte concettuale?
Forse ma appare riduttivo per un uomo così lontano dagli schemi. “Saul
Steinberg mi ha fatto la gioia di illustrare il vuoto delle conversazioni di
certi personaggi di un mio testo teatrale” raccontava il drammaturgo Eugène
Ionesco. “Vi si vedono nelle nuvolette, come nei fumetti, uscire strane cose
dalle loro bocche, orologi barocchi, per esempio, o delle specie di frasi
illeggibili. In un’immagine ha detto meglio di me quello che volevo dire, cioè
che questi personaggi non dicevano niente o che parlavano per niente.” Un altro
suo ammiratore fu John Updike, attratto dalla “penna a punta fine di Steinberg
che traccia ghirigori - calligrafia della mente, sismografo che fa giochi di
parole.”
Per dirla tutta lo
stesso Steinberg si sentiva un artista sui generis, sempre a cavallo tra design,
caricatura, illustrazione, collage, decorazione, fumetto, calligrafia. Mai
stabilmente ancorato a una sola forma di espressione, a un solo mestiere. E’
particolarmente evidente nell’ampia esposizione che gli ha dedicato la
Triennale di Milano, a cura di Italo Lupi e Marco Belpoliti, dove è stata
riproposta una lunga intervista con Sergio Zavoli in cui spiegava così il suo
“rifiuto” per la pittura e la scultura: “Sono difficili e complicate e per me
sarebbero una perdita di tempo. C’è nella pittura e nella scultura un
compiacimento, un narcisismo, un modo di perdere tempo attraverso un piacere
che evita la vera essenza delle cose, l’idea pura; mentre
il disegno è la più rigorosa, la meno narcisistica delle espressioni.”
Steinberg non
esercitò nemmeno la professione di architetto, pur essendo laureato, anche se,
come ricorda Aldo Buzzi, in ogni sua composizione si legge in controluce
l’assimilazione di quegli studi. Questo viaggiare tra discipline, come il
vagabondare nella vita, è in effetti una costante fondamentale per capire
Steinberg. Non a caso uno dei suoi libri più noti s’intitola The Passport
ed è una raccolta di quelle parodie di passaporti di cui scrivevamo poco sopra,
falsi documenti, finte firme, timbri inventati, sigilli e lasciapassare
immaginari che saranno una parte importante e ricorrente nella sua produzione.
Il valore simbolico è evidente conoscendo la dimestichezza di Steinberg con
documenti e passaggi di confini: dopo l’approdo in Italia dall’Est Europa, era
fuggito nel 1941 a causa delle leggi razziali che gli impedivano di lavorare ed
era arrivato a New York dopo un lungo pellegrinaggio tra Lisbona, Roma, Santo
Domingo e Ellis Island. Non solo: aveva viaggiato poi molto in missioni
all’estero come soldato dell’esercito americano (riportandone meravigliosi
reportage disegnati) e continuò a farlo per tutta la vita. Quel libro
ebbe inevitabilmente una lettura satirica perché uscì nel pieno della caccia
alle streghe di McCarthy in America (quando a comunisti e presunti nemici della
patria non era permesso l’espatrio) ma fu in ogni caso soprattutto uno
straordinario inventario di “visti” per meravigliose destinazioni del tratto e
della grafica che avrà modo di visitare anche in seguito. Quelle false firme,
una volta pubblicate, diventavano miracolosamente vere autenticando in qualche
modo l’identità di Steinberg e certificando il suo ingresso nel mondo dell’arte.
Per descrivere un
altro suo celebre libro, The New World, Steinberg immaginò questa
epigrafe “Cogito ergo Cartesius est (Penso, dunque Cartesio esiste). Per
me questo significa che ciò che io disegno è disegno, che il disegno deriva dal
disegno. La mia linea vuole ricordare costantemente che è fatta d’inchiostro.
Il lettore seguendo con gli occhi la mia linea diventa un artista (guardo
dunque Steinberg esiste).”
Oggi, rileggendo
la sua opera in cerca del suo carattere più distintivo e resistente nel tempo, viene
spontaneo richiamare insieme il suo gusto per la parodia (che sentiva di
condividere con Joyce e Nabokov) e la sua essenzialità, quella straordinaria capacità
di sintesi ironica per cui aveva trovato tra l’altro una formula efficacissima,
la “teoria del naso”: “Io credo che il naso sia la parte del nostro corpo più
primitiva, la più originale e privata; gli occhi e la bocca sono già, come
dire, elementi politici della faccia, mentre il naso è rimasto un po’
l’antenato della faccia, è la parte meno evoluta. Si può costruire il proprio
viso disegnando sul naso stesso gli occhi, il naso e la bocca, e diventa un
ritratto essenziale di me stesso. E non solo di me stesso, ma di tutti; tutti
abbiamo un naso come elemento che ci identifica; è il naso che ci rende
complici di noi stessi. La misura dell’uomo è il suo naso, è un po’ il nostro
distintivo.”
Ecco. Con quel fiuto ironico Steinberg andò a caccia del
senso dell’umanità per tutta la vita. Non era destinato a trovarla (come tutti)
ma forse ci andò vicino.
Deirdre
Bair, Saul Steinberg. A biography. 2012
Marco
Belpoliti e Gianluigi Recuperati (a cura di) Riga 24. Saul Steinberg.
2005
Jessica
Feldman in Saul Steinberg’s Literary Journey. 2021
Saul
Steinberg, The Passport. 1954
Saul
Steinberg, The Labyrinth. 1960