PANEGIRICO DELL'OZIO INDAFFARATO
Da "Re Nudo" (Marzo 2024)
https://renudo.org/magazine/3807/marzo-2024/
Certo in
origine l’ozio risulta anzitutto una forma di fuga aristocratica e, diciamo
pure, con scarsa possibilità di presa presso i ceti meno abbienti e gli uomini e
le donne in schiavitù. Ma l’ozio è in realtà la condizione imprescindibile per
riuscire con successo in qualsiasi lavoro e a qualunque livello sociale. Se
Seneca ne faceva una virtù stoica di armonia con la natura, Cicerone andava
oltre sostenendo che nutrisse la dignità della persona e contribuisse alla
stabilità del vivere civile. In fondo l’idea è quella di una pausa di
rigenerazione senza cui il lavoro non può “rendere libero” nessuno (per citare
l’infausto motto che accoglieva i deportati nei campi di concentramento
nazisti).
In un mondo di workhaolic dove il lavoro ci insegue oltre gli
orari d’ufficio grazie al telefono, alla posta elettronica e alle chat più o
meno virtuali, riappropriarsi dei propri spazi diventa obiettivamente
salvifico. E l’emergenza riguarda in particolare le nuove generazioni assillate
dall’invadenza del mondo iperconnesso e dalla dittatura dei social network che
le priva di ogni possibile esperienza di sanissima noia. Ne ha scritto
diffusamente e con saggezza il sociologo Domenico De Masi: “Viviamo in una
società dove ci insegnano a essere solo produttivi e non abbiamo un’educazione
al tempo libero. Dobbiamo prendere atto del fatto che il lavoro non è
tutto, che il progresso tecnologico ci fornisce infinite protesi con cui
arricchire il nostro corpo di sensazioni e funzioni. Imparare ad arricchire le
nostre ore mischiando il lavoro con lo studio e con il gioco in quel mix
sublime che io chiamo ozio creativo”.
Non è però una conquista pacifica in un mondo che ha vissuto a lungo
l’influenza del cristianesimo che predica l’inevitabilità della sofferenza
terrena e guarda con sospetto ai
piaceri della vita. Per questo va accolto con gratitudine il filone di pensiero
filo-ozioso che si è andato affermando tra Otto e Novecento. Tra i suoi corifei spicca l’umorista inglese Jerome K. Jerome, editor
della rivista The Idler e autore di un caposaldo del genere: I
pensieri oziosi di un ozioso. “La pigrizia è sempre stato il mio cavallo di
battaglia” ha scritto, “è un dono di natura. Sono in pochi a possederlo.
C’è una gran quantità di pigri, ci sono mascalzoni a bizzeffe, ma un ozioso
genuino è una rarità. Non è il tipo che se ne va in giro con le mani in tasca.
Al contrario, la sua più sorprendente caratteristica sta nel fatto che è sempre
vorticosamente indaffarato. Perché è impossibile godere della pigrizia
fino in fondo se non si ha parecchio lavoro da compiere.”
Insomma
nulla a che vedere per intenderci con l’incarnazione letteraria della pigrizia,
l’Oblomov di Ivan Goncharov, ritratto dell’indolenza e del vizio di un
giovane rentier russo sopraffatto dall’apatia, e programmaticamente
incapace di reagire alla decadenza ma ancor prima di passare dall’idea
all’azione. Oblomov è una sorta di accidioso invertebrato incatenato tra sogno
e realtà al suo polveroso divano in mezzo a ragnatele e libri ingialliti. Ma il
suo non è ozio, appunto, piuttosto accidia. Non è forse vero ozio d’altronde
neanche l’idealismo atarassico della comunione con la natura cui inneggia
Jean-Jacques Rousseau nelle Fantasticherie di un passeggiatore solitario
come via preferenziale per la vera felicità.
Più
pungente e azzeccato sembra il punto di vista del letterato britannico Samuel
Johnson che, a testimonianza di una vigorosa tradizione anglosassone sul tema,
pubblicò tra il 1758 e il 1750 un centinaio di brevi saggi sull’ozio (poi
raccolti in The Idler). E che, ritraendo anzitutto se stesso, scriveva:
"Il Fannullone è per sua natura un criticone; quelli che non fanno nulla
da sé, pensano che ogni cosa sia facilmente realizzabile, e criminalizzano
tutti quelli che falliscono in un'azione." Ma per intendersi secondo
Johnson occorre anzitutto partire da un teorema fondativo: “Colui che non abbia
mai lavorato potrà conoscere i fastidi derivanti dal non far niente, ma
certamente non il piacere.”
Per farsi
un’idea delle due opposte correnti in campo vale la pena di leggere il
delizioso e autobiografico Pigro viaggio di due apprendisti oziosi di
Wilkie Collins e Charles Dickens che inizia così: “Nel mese di settembre due
oziosi apprendisti, esausti per la lunga estate e il torrido lavoro, fuggirono
abbandonando il posto. Non avevano intenzione di andare in nessun luogo
particolare. Volevano soltanto stare in ozio.” Ma i due ben rappresentano
appunto due distinti schieramenti: “Quella di Francis Goodchild era una
pigrizia laboriosa, si sarebbe addossato qualunque fatica pur di esser certo di
oziare. Thomas Idle invece era un ozioso passivo, del tipo irlandese o
napoletano purosangue che razzolava come avrebbe predicato se non fosse stato
troppo pigro per predicare.”
Opera
seminale sull’ argomento – sempre in lingua inglese non a caso - è L’apologia
dell’ozio di Robert Louis Stevenson, un invito travolgente a rifiutare ogni
presunta etica del lavoro e abbracciare i semplici piaceri della vita come
bere, mangiare e vivere all’aria aperta. Si è spinto oltre Bertrand Russell
redigendo un vero e proprio Elogio dell’ozio in cui spiega perché il
lavoro non può essere l’unico scopo della vita umana mentre lo è, non
casualmente, per ideologie come il fascismo e il comunismo. Per il Premio Nobel
molti grandi progressi nella storia dell’uomo sono stati possibili proprio
grazie al “sapere inutile” e al tempo libero (per non parlare dei possibili
vantaggi in termini di tendenza alla pace tra gli esseri umani).
Ma se non
fosse sufficientemente chiaro benvenga il passo successivo, la teorizzazione e
la rivendicazione di un Diritto all’ozio come quello propugnato a metà
Ottocento da Paul Lafargue, rivoluzionario di origini creole, nemico del
capitalismo e del suo culto per il lavoro “alienante” ma anche del clero e
della sua predicazione sull’inevitabilità di una vita lastricata di sofferenze.
Lafargue sposò una figlia di Karl Marx, Laura, ma non condivideva gli eccessi
del determinismo economico del pensatore socialista. E non è un caso forse che
abbia avuto più successo con il suo occasionale libello satirico che con il suo
effettivo mestiere di rivoluzionario. Gli va concesso tra l’altro di essere
stato un vero e proprio antesignano della “decrescita felice” in piena
rivoluzione industriale.
Un
esempio concreto di vita dedita all’ozio si ritrova in molti uomini di lettere
e di scienza, come ricorda Tom Hodgkinson nel suo L’Ozio come stile di vita:
basterebbe seguire gesta e propositi di Cartesio, Whitman, Chesterton, Thoreau
e molti altri. Oscar Wilde sosteneva che “non fare assolutamente nulla è la
cosa più difficile al mondo.” E Friedrich Nietzsche se la prendeva con il
lavoro che “porta sempre più dalla sua parte la buona coscienza: il desiderio
di divertimento prende il nome di “bisogno di svago”, e arriva perfino a
vergognarsi di se stesso. “Lo facciamo per la nostra salute”, dicono le persone
sorprese a fare un picnic.”
In questo senso noi occidentali potremmo
aver qualcosa da imparare dalla tradizione orientale. Ne era convinto Herman Hesse, autore di un celebre scritto sull’Arte
dell’ozio: “Quanto più la prepotente attività industriale priva di gusto e
di tradizione ha assimilato anche il lavoro intellettuale inculcandoci l’ideale
di uno sforzo coatto, tanto più l’arte dell’ozio è andata in rovina… Nel mondo
occidentale l’ozio elevato all’arte è stato praticato solo da innocui
dilettanti.” Non è un caso in effetti che in Cina già nel terzo secolo avanti
Cristo un maestro del taoismo come Zhuang Zhou affermasse che “chi non sa usare
il tempo libero ha più lavoro di quando c’è lavoro nel lavoro”.
Ma in
fondo perché darsi tanto da fare intorno al concetto di ozio? Come cantano gli
Oasis in The importance of being idle, “che importa finché c’è un letto
sotto le stelle che brillano”?