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1.10.2019

L'ULTIMO REPORTER

Ascesa e caduta del "giornalista da romanzo"



Da "PRETEXT"

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La deriva imboccata dalla stampa negli ultimi anni ha portato a dibattere sulla data di pubblicazione dell’ultima copia del New York Times e a fantasticare dei nuovi e brillanti mestieri dell’informazione digitale, ma sembra aver evitato l’elaborazione di un danno tutt’altro che collaterale e cioè la scomparsa della figura del giornalista da romanzo così come è evoluta nell’immaginario collettivo dell’ultimo secolo (anno più, anno meno). Non è in causa la scomparsa del giornalismo, sia chiaro, ma proprio quella del mitico inviato speciale, armato solo di trench, penna e taccuino nelle remote trincee del Pianeta, o del suo paradigmatico opposto, il cronista politico senza scrupoli, pronto a ogni compromesso tra velleità di potere e ambizione sociale. Come in un giallo perfetto, le indagini sono state minuziose e i detective si sono sfidati con analisi e deduzioni brillanti ma si sono concentrate essenzialmente sulla crisi dei giornali senza accorgersi del cadavere che giaceva da un pezzo in mezzo alla stanza: quello del giornalista da leggenda e dell’aura un po’ maledetta che ne ha accompagnato per lungo tempo le gesta.
Honoré De Balzac, in un suo piacevole “trattato”, distingueva con un certo sprezzo tra camarillisti parlamentari, panflettisti, fabbricatori di articoli di fondo, factotum, nientologi, incensieri, giustizieri e molti altri. Ciascuno di essi, nel suo aspetto autentico o caricaturale, era palesemente un personaggio da fiction tanto quanto poteva esserlo uno scrittore boehmien o un politico corrotto. Nel tempo le cose sono cambiate di poco: alle figure elencate si sono aggiunti “culi di pietra”, addetti al desk, inviati di punta, editorialisti, tuttologi e “scavafango” (come li ha definiti James Ellroy in American Tabloid), mezzibusti televisivi, miti mediatici (da Peter Arnett a Christian Amanpour) e infine campioni dei social network, youtuber e artisti della corrispondenza virtuale istantanea. Anche se l'impressione è che questi ultimi abbiano raggiunto grandi vette di popolarità ma forse non il fascino dei professionisti delle news dell’era precedente all’avvento del Web. Senza contare il rischio di un labile confine tra alcuni giornalisti di grande seguito internettiano e i veri e propri influencer.
Nel nuovo mondo delle fake news e dei troll dispensatori di verità improbabili, nessuno mette in dubbio l’importanza delle notizie o la necessità del giornalismo investigativo. Anzi: della cocciutaggine del cronista c’è sempre più bisogno e, tra le nuove leve, le autentiche regole del mestiere sono forse più sentite di prima. A sua volta il citizen journalism, che fa di ogni cittadino un potenziale scrittore civile e una fonte d’informazioni apre senz’altro prospettive di trasformazione assolutamente promettenti se e quando non prende la forma dello sfogo collerico protetto dall’anonimato della Rete. Al massimo si può far notare che la caccia alla notizia sceglie spesso la scorciatoia della frivolezza e che si è passati con una certa disinvoltura dai dispacci di Luigi Barzini nella guerra russo-giapponese d’inizio Novecento ai tweet di puro gossip sui seni rifatti di qualche vip. Ma l’ossessione dello scoop resta vivissima e, se qualcuno rimpiange il mitico reportage del caso Watergate o le interviste di Oriana Fallaci dovrebbe ammettere che in ogni caso l'offerta giornalistica odierna è sempre più ampia: dalle immagini proibite delle guerre più esotiche alle inchieste sugli scandali politici e finanziari su scala locale o planetaria. Se la competizione si è allargata e gli attori della comunicazione si sono moltiplicati, è anche vero che è cresciuta vertiginosamente anche la possibilità di far emergere uno scandalo o di portare all'attenzione del pubblico le notizie più remote e inaccessibili.
E' proprio in questo passaggio però che è stato commesso il delitto di cui sopra: la tecnologia ha ucciso a poco a poco la figura romantica e maledetta del giornalista che ha vissuto a lungo nella realtà e ancor più in un fervido immaginario folkloristico coltivato da saggi, racconti,  mitologie metropolitane e dalla stessa comprensibile necessità di ognuno di noi di dare un volto e un carattere definito (positivo o negativo a seconda delle necessità) ai dispensatori di notizie, di opinioni e di consigli utili alla comunità. Non è una semplice questione di conservatorismo e nostalgia. O almeno non è solo questo. I grandi reporter di un tempo avevano, è vero, l'aria di appartenere a una ristretta aristocrazia internazionale di raffinati reporter della vita, ma non c'era in effetti alcuna particolare patente di nobiltà per membri e affiliati dell'élite giornalistica. In redazione si arrivava un po' da ogni dove e la carriera dipendeva tanto dalla bravura professionale quanto dalla capacità di navigare tra la gestione di un direttore di giornale, le lotte tra colleghi, gli umori del proprietario della testata e le pressioni di imprenditori e politici di turno. Una volta dentro al giornale, la sigaretta ti si appiccicava al labbro in un certo modo, il ticchettio della macchina da scrivere ti accompagnava anche fuori servizio e gli abiti si raggrinzivano inconfondibilmente insieme a un’aria vagamente maledetta.
“Mezzo secolo fa”, si legge in Come si scrive il Corrriere della Sera, “un famoso film interpretato da Joel MacCrea, The Foreign Correspondent ambientato nella Germania agli albori del nazismo consegnò alla storia un’immagine romantica del corrispondente dall’estero: un riluttante ma coraggioso detective in Borsalino e trench dedito alla verità e alla giustizia…” Se quello era il modello dell'inviato internazionale di celluloide, la sua versione in carne e ossa (con tanto di impermeabile sdrucito) fu il francese Albert Londres, noto per la famosa frase con cui abbandonò il giornale per cui scriveva: “Signori continuo a credere che un giornalista debba seguire una sola linea, quella ferroviaria”. Fu inviato tra l’altro nella Ruhr occupata dai francesi nel 1923 e nel 1929 partì alla scoperta delle comunità ebraiche europee, per incarico del quotidiano "le Petit Parisien". L'inchiesta lo portò da Londra alla Russia subcarpatica, poi in Transilvania, in Bessarabia, in Bucovina, in Galizia, dove visitò ghetti e insediamenti ebraici misconosciuti, raccontando le drammatiche condizioni di vita, la diffusione del sionismo alla vigilia dell'Olocausto e infine la fuga e l'emigrazione sulle navi della diaspora verso la terra promessa in Palestina.
Ma per capire come nasce la figura antropologica del reporter d’antan occorre tornare appunto al romanzo perché della fiction il giornalista è stato spesso tanto il protagonista quanto l'autore. Si pensi all’Arthur Pendennis di William Thackeray, autore della Fiera delle vanità e pungente articolista del Punch. E questo è in fondo naturale se si pensa quale straordinario concentrato del suo tempo rappresenti il giornalista: un perfetto campione della realtà perché, attraverso di esso, la possibilità di descriverla si moltiplica magicamente, a seconda della parte del mondo di cui il pennivendolo, o il suo giornale, si occupano (dai gatti caduti dal tetto alle massime questioni internazionali, dalla cronaca finanziaria e politica alle rubriche per cuori infranti).
Indimenticabili i giornalisti descritti da Dickens nel Circolo Pickwick come Boz, osservatore e caricaturista umoristico della vita borghese inglese. Dickens, non a caso, prima di diventare il più famoso romanziere dell’età vittoriana, era stato cronista parlamentare, dopo aver trascorso quell’infanzia misera e infelice che rievocò in parte in Oliver Twist e David Copperfield, con il padre in carcere per debiti, e lui costretto a lavorare in fabbrica e poi come commesso. Ci sono poi i personaggi di Anthony Trollope e Thomas Hardy, quelli caricaturali e quelli brutalmente rapiti dalla realtà, come i personaggi di Henry Fielding; il Lucien Rubempré delle Illusioni perdute di Balzac o il Bel Ami di Maupassant (entrambi individui senza scrupoli ma in fondo oggetto di una malcelata ammirazione degli stessi autori di fronte alla rapida ascesa sociale, o alla discesa agli inferi, dei rispettivi personaggi). Tra i due il secondo, il bel Duroy (“una canaglia descritta da una canaglia”, secondo la definizione di Henry James), è forse l’esempio romanzesco più felice del dongiovanni interessato che fonda la sua arrampicata tra giornalismo politica su amori e favori di vario genere. Dalla conquista di Madame Walter, la moglie del padrone del suo giornale fino alla seduzione dell'adolescente Susanna, figlia del milionario Walter e della sua stessa ex amante, sembra riuscire a conservare "una specie di spontaneità… quasi un'ombra di primitiva innocenza".
Di altra pasta, almeno nelle intenzioni dell'autore, sono i redattori dell'omonima commedia di Gustav Freytag (i redattori dell' “Unione” e del “Coriolano” i giornali rivali di una città di provincia, in periodo elettorale, autentiche macchiette come Kämpe, che redige gli articoli di fondo, Körner che scrive le corrispondenze dall'estero, stando in redazione e il capo Bolz, che detta a un certo punto un perfetto ritratto dello spirito dei gazzettieri: “Chi appartiene alla nostra corporazione ha l'ambizione di apparire scrittore umoristico o scrittore di polso; il resto non c'importa. Noi giornalisti ci alimentiamo dei fatti del giorno; tutte le pietanze che Satana manipola per gli uomini dobbiamo assaggiarle. Chi lavora a un'opera giornaliera non è forse giusto che finisca con l'adattarsi a vivere giorno per giorno? E noi ronziamo come le api, sorvoliamo in ispirito il mondo, suggiam miele dove ne troviamo, ma dove qualcosa ci irrita piantiamo il pungiglione. Una simile vita non è certo fatta per produrre grandi eroi; ma è pur necessario che ci sian tipi della nostra specie.”
Matteo Cantasirena, personaggio della Baraonda di Gerolamo Rovetta (1851-1910) è un “tipico profittatore del patriottismo.” Furbo, intrigante, invadente, e talora - quando il denaro corre - a suo modo, generoso e prodigo, il commendatore Cantasirena, bell'uomo dalla barba bianca, dall'aspetto autorevole, dagli occhi buoni, dal tratto affabile e paterno, fa il giornalista, a tutto adattandosi pur di procurarsi denaro: così presta la sua penna per poco eroici servigi di carattere elettorale e soprattutto sfrutta abilmente l'umana vanità adulando gli uomini “che han fatto l'Italia”.
Poi viene il tempo dei più sofisticati o più scafati “violinisti da bordello” del Novecento, come il Fowler corrispondente in Indocina nell’Americano tranquillo di Graham Green, i deuteragonisti de I giornali di Henry James (vittime del moloch di Fleet Street) o ancora Mister Flack, che ne Il Riflettore di James è il corrispondente mondano dell’omonimo giornale scandalistico che ai propri fini carpisce a un’ingenua ragazza indiscrezioni sull’aristocratica famiglia del fidanzato, gli scrittori rivali dell’Informazione di Martin Amis o l’ubriacone Peter Fallow nel Falò delle vanità di Tom Wolfe.
Lasciando da parte molti altri possibili esempi – come gli scenari mai troppo fantapolitici di George Orwell (1984), dove al redattore si sostituisce di fatto un funzionario del ministero della Verità, addetto alla correzione dei vecchi numeri del Times - una piccola indagine comparativa potrebbe mettere in rilievo come, alla graduale diminuzione della stima nei confronti dell’“impiegato della notizia”, corrisponda un crescente livello d’ironia nella sua descrizione, in tutte le possibili sfumature del caso: dal forte realismo descrittivo di un Balzac all’umorismo canzonatorio fino alla feroce satira di costume. Su questo versante gli autori anglosassoni sono stati molto efficaci: dall'esilarante Psmith di Wodehouse, deciso a trasformare la testata “Dolci Momenti” in una rivista d’assalto e di ruvida denuncia sociale e l’inviato Mister Boot creato dalla penna di Evelyn Waugh. E sul tema ha scritto magistralmente anche Mark Twain in un paio di racconti: Come fui redattore di un giornale agrario e Giornalismo nel Tennessee.
L’Inviato speciale di Waugh merita un piccolo approfondimento. Di origini agiate ma non aristocratiche, pittore mancato, allevato a Oxbridge e nutrito del suo pedante conformismo, Waugh vive la fine dell’età vittoriana, il declino dell’Impero coloniale britannico e la tragedia della grande guerra. “Nel 1935” racconta, “ci fu l’invasione dell’Abissinia da parte degli italiani. Tornai in Africa nelle vesti di corrispondente di guerra (per il “Daily Express” ndr). Per quanto poco sul serio potessi prendere il mio compito e anche le arie dei miei colleghi, avevo pur sempre indosso la livrea dei tempi nuovi… Ma le speranze di allora si sono rivelate sciocche ingenuità”. E’ allora e in quei luoghi che iniziano a intrecciarsi i suoi destini con quelli del protagonista dell’Inviato speciale, William Boot, placido corrispondente di argomenti botanici e bucoliche amenità venatorie dalla provincia inglese. Il signor Boot viene infatti richiamato dall’editore a Londra e scambiato per uno scrittore emergente a causa di una delle più classiche omonimie e spedito, suo malgrado, a seguire una crisi internazionale in un luogo, l’immaginaria (ma non troppo) Ismaelia - che non poteva rivelarsi in alcun modo più distante da lui.
C’è una celebre legge del pessimismo (più precisamente la legge di Fuller teorizzata dall’umorista Arthur Bloch) secondo cui più lontano accade una catastrofe o un incidente, più alto deve essere il numero di morti e feriti perché faccia notizia. A Ismaelia, in verità, la guerra non è ancora scoppiata, ma i rumors sono sufficienti per scatenare coorti di affilati ‘imbrattacarte’. Boot, che arriva da un mondo incantato che assomiglia molto alla corte di Blandings dipinta dalla fantasia di Wodehouse, farà in fondo quello che ognuno si aspetta da un buon giornalista – come diceva Longanesi - “che ci spieghi benissimo quello che non sa”. E grazie all’antica legge dell’antimeritocrazia, il nostro perfetto antieroe s’innamora (non ricambiato) della consorte di un geologo in missione e, grazie alla propria inettitudine, scopre infine un tentativo di colpo di Stato sfuggito ai colleghi di mezzo mondo.
Fin qui abbiamo i giornalisti di carta stampata; ma ci sarebbero anche quelli disegnati, eroi dei comics come Clark Kent, alias Superman, che lavora come redattore al “Daily Planet” e che non casualmente ha lasciato ultimamente la prestigiosa testata per tenere un blog in proprio. Ma un capitolo fondamentale del grande romanzo del giornalistico è quello di celluloide. "E' la stampa, bellezza!" secondo una delle citazioni più abusate di sempre. A pronunciarla nel film L'ultima minaccia di Richard Brooks è il direttore, Humphrey Bogart, facendo ascoltare all'interlocutore che ha al telefono il rumore delle rotative. Ma le pellicole che hanno contribuito a costruire la leggenda sono molte: da Piombo rovente di mackendrick a L'asso nella manica con Kirk Douglas; da Quarto potere di Orson Wells a Prima Pagina con Walter Matthau e Jack Lemmon, dall’Asso nella manica di Wilder a Qualcosa di personale con Michelle Pfeiffer e Robert Redford; da Tutti gli uomini del presidente di Alan Pakula a Insider con Al Pacino e Russell Crowe; da Quinto potere di Sidney Lumet a Dentro la notizia con William Hurt; da Professione reporter di Antonioni a Un anno vissuto pericolosamente con Mel Gibson; da Accadde una notte con Clark Gable e Claudette Colbert a Sesso e potere di Levinson con Dustin Hoffman, dove viene inventata una guerra in Albania per distrarre le attenzioni del Paese sullo scandalo sessuale che coinvolge il presidente; fino al più recente Goodnight, and good luck di e con George Clooney che veste i panni e rievoca le gesta dell'integerrimo reporter Edward Murrow conduttore della Cbs che si oppose alla caccia alle streghe comuniste del senatore McCarthy.
Un elenco pressoché sterminato di lungometraggi che hanno di volta in volta issato i giornalisti nell’empireo celeste o liquidato le loro controfigure cinematografiche nella feccia degli arrampicatori corrotti, pronti a tutto per una conduzione serale del tg. Raramente una via di mezzo: martiri della libertà d’informazione con i muscoli di Stallone e il profilo di Redford o corrotti, piccoli truffatori e faccendieri al servizio di sporchi interessi e pericolose collusioni.
La realtà, per chi abbia minimamente frequentato le trincee del giornalismo odierno (e con buona pace del grande Kapuscinski, o meglio del titolo di un suo libro, secondo cui Il cinico non è adatto a questo mestiere, rischia di essere un po’ più complicata e meno romantica se si pensa agli infiniti compromessi (politici e non) o alle inevitabili banali meschinità commesse non in pieno Territorio Comanche (come Arturo Pérez-Reverte definisce trincee di guerra e frontiere pericolose) ma nella penombra di redazioni, circoli bocciofili e varie stanze dei bottoni.
Oggi il reporter di un tempo, ammesso naturalmente ci sia stata davvero una corrispondenza tra lui e la sua idealistica versione da romanzo, non sopravviverebbe a lungo a modi e tempi del nuovo mondo a realtà aumentata e a vorticoso rimo di obsolescenza. Resuscitarlo naturalmente servirebbe a poco ma ricordarne il valoroso servizio sul vasto fronte della cultura occidentale è doveroso e ogni piccola lezione di storia in fondo rischia sempre d’insegnare qualcosa.