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7.06.2018

LA TRAPPOLA DELLA "BUONA CENSURA"


Come la sindrome del politicamente corretto ha contagiato il mondo dei libri

(Da PRETEXT)

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Che cosa accadrà al vecchio verro della Fattoria degli animali di Orwell e ai Tre porcellini in lotta col lupo? Spariranno per sempre dai nostri scaffali e dal nostro immaginario? Saranno sostituiti da animali più presentabili e politicamente corretti? A spingerli tra le specie a rischio d’estinzione è l’epidemia del politicamente corretto che ha progressivamente contagiato la cultura occidentale. Per fortuna i suini di cui sopra non si trovano nel catalogo della prestigiosa Oxford University Press, vista la nuova linea editoriale che ha proibito ai suoi autori di menzionare nei testi le parole "maiale" e "carne di maiale" (e le loro brave derivazioni: salsicce, salame, prosciutto e via insaccando) con l’intento di non offendere i lettori musulmani ed ebrei.
Sono solo linee guida, secondo l’editore inglese: "Pubblichiamo libri in 200 Paesi e consigliamo sempre ai nostri autori di rispettare le sensibilità locali, le differenze culturali". Proposito nobilissimo naturalmente, ma se dovessimo rispettare la  “sensibilità” di ogni gruppo, comunità e individuo in ogni pubblicazione e magari con effetto retroattivo su qualunque testo della letteratura mondiale, ci troveremo prima o poi a vagare in un mesto cimitero di parole defunte e di epitaffi alla fine dell’immaginazione. Come rischia di accadere ne La meravigliosa O (1957) di James Thurber, storia di un pirata che si impadronisce di un’isola e mette al bando la lettera O, che detesta in modo viscerale da quando la madre è rimasta incastrata in un oblò. Per fortuna i ribelli sull’isola non mancano, continueranno a parlane con la lettera vietata e manderanno a monte il piano del corsaro perché “a coat is not a cat and a boat is not a bat” o, nella versione italiana, “quando voglio le uova non voglio l’uva”.
Un chiaro esempio del rischio che corriamo è rintracciabile nelle fiabe politicamente corrette riscritte da James Finn Garner. Nelle nuove versioni dei classici per l’infanzia l’imperatore non è più nudo ma segue la moda di stagione, Biancaneve si rifugia dai sette diversamente alti, Riccioli d’oro è una scienziata impegnata a studiare l’antropomorfismo degli orsi e le sirene si vedono finalmente riconosciuti i diritti fondamentali che quel conservatore di Hans Christian Andersen non aveva mai concesso ai protagonisti delle sue storie (nell’Ottocento). Più che un adattamento, una satira che mette alla berlina il tentativo di normalizzare anche le più tradizionali forme narrative per proteggere i bambini (ma forse gli adulti in primis) dalle ingiustizie del mondo. Ma il rischio di svegliarsi in un incubo di anodina perfezione è dietro l’angolo e tenderebbe ad assomigliare purtroppo alla dittatura di 1984 di Orwell dove il partito unico ha imposto una neolingua priva di sfumature eterodosse e il Ministero della Verità si preoccupa di correggere testi e articoli del passato perché corrispondano al dettato del Grande Fratello. Inevitabile il riferimento al futuro distopico di Farenheit 451 (la temperatura a cui brucia la carta) di Ray Bradbury in cui il pompiere Montag è addetto a incendiare le case di chi viola la legge conservando i libri banditi: “Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite... per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia”.
Prendiamo uno dei grandi personaggi della storia della letteratura: il capitano Achab del Moby Dick di Herman Melville. Fino a qualche tempo fa non avremmo avuto difficoltà a definirlo semplicemente un cacciatore di balene. Ma per un numero crescente di persone andrebbe chiamato col suo “vero nome”: “una persona portatrice di un comportamento scorretto nei confronti dei cetacei a rischio di estinzione”, un uomo contrario a ogni regola fondamentale per la conservazione del patrimonio ambientale, anzi un rappresentante convinto del dispotismo del mercato globale, pronto a fare affari con l'industria monopolistica dell'olio. Se pensate di potervi imbattere in una definizione di questo tenore solo negli ambienti più radicali di qualche città liberal americana siete molto ottimisti: ora potrebbe capitarvi in molti paesi al di qua dell’Atlantico e vi conviene esser pronti ad esser coperti di improperi se sosterrete tesi differenti sull’argomento con dichiarazioni non sufficientemente eufemistiche.
Nella nuova versione di Huckleberry Finn di Mark Twain, curata dal professor Alan Gribben, la parola nigger è stata sostituita con slave (schiavo) ed è scomparso il termine injun (indiano) per non urtare la sensibilità delle minoranze pellerossa. Senza considerare però che il testo così finisce per cambiare il significato attribuito dall’autore che, quando ha scritto il libro alla fine dell’Ottocento, ha usato parole di uso comune che non avevano alcun intento spregiativo. Si potrebbe aggiungere che non si tratta di un comportamento tanto nuovo in fondo. Prendiamo le istruzioni che Elio Vittorini diede nel 1964 a Fernanda Pivano, traduttrice delle poesie di Allen Ginsberg: “Sostituire sperma con seme; sostituire l’ultima sbora con l’ultimo sperma", "sostituire buco del culo con b.d.c.", "sostituire cazzo con membro", "sostituire l’intera parola culi con tre puntini", "sostituire l’intera parola cazzo con tre puntini". Il tutto si ritrova in una lettera inviata dalla direzione editoriale Mondadori; ma il contesto era differente e la versione edulcorata di Howl era volto a evitare problemi in vista della pubblicazione di un’antologia poetica, visto "il moralismo della Magistratura Italiana".
Il fenomeno del politicamente corretto, mosso dal desiderio di evitare ogni forma di emarginazione dei più deboli, sarebbe in fondo condivisibile da chiunque se non raggiungesse punte radicali ed effetti parossistici nocivi per tutti. Il rischio è anzitutto che si riduca a una pura manifestazione di conformismo: una piccola maschera che ci abituiamo a indossare per non risultare antiquati. Un comportamento di adesione alle convenzioni volto a nascondere la nostra identità reale che finisce per trasformarsi, giorno dopo giorno, in quella ufficiale. Diciamo alcune cose perché altri ci assicurano che sono quelle corrette e infine noi stessi crediamo che lo siano. Anni fa per esempio la parola globalizzazione evocava straordinari e pluriennali piani di sviluppo in vista del raggiungimento della prosperità planetaria. Ora è l’esatto opposto: non essere schierati contro la globalizzazione può crearvi qualche problema. E da questo punto di vista il mercato editoriale della carta stampata è uno specchio perfetto di questo fenomeno: tutti – chi più chi meno – hanno contribuito all’esaltazione dei fecondi destini di internet e delle sue prospettive neodemocratiche, aspettando solo la conclusione del flusso positivo per virare freneticamente verso posizioni virulentemente antitetiche alle precedenti.
A ben guardare, adottare il metodo della correttezza politica può essere un modo di affrontare i nostri tabù, e le proibizioni che li circondano, è un modo di nascondere soprattutto le nostre paure di fronte a ciò che è diverso o appare tale. Azar Nafisi, autrice di Lolita a Teheran sostiene che “il politicamente corretto è assolutamente incompatibile con la letteratura perché non consente alcun tipo di dibattito e punta a eliminare i pregiudizi facendo appello alle emozioni”. Un’affermazione fatta con cognizione di causa considerando che l’autrice iraniana ha dovuto lasciare il suo Paese per le critiche scatenate dal suo romanzo. Si cercano soluzioni facili a situazioni complesse, ma l’arte e la letteratura hanno un altro compito: dovrebbero metterci di fronte al caos dell’esistenza attraverso l’invenzione e farci sentire a disagio può essere una conseguenza necessaria.
Qual è allora l’origine del fenomeno “Pol. Corr.”? È un concetto esclusivamente yankee? È davvero un pericolo nuovo dal punto di vista storico? Nella sua Cultura del piagnisteo Robert Hughes suggerisce un'origine “tribale”. Non a caso la parola taboo (nell’adattamento inglese) o tabou (in quello francese) viene da alcune splendidi atolli del Pacifico dove veniva utilizzata per indicare gli oggetti più sacri e proibiti. Ma la fortuna del termine arriva grazie alle interpretazioni antropologiche e alle teorie psicologiche (Freud in testa). Come ogni forma di tabù il canone politicamente corretto cambia a seconda delle latitudini, della cultura e dei periodi storici. Nel mondo contemporaneo sembrano perdere forza progressivamente tabù tradizionali come la morte, la malattia e il sesso. Anche se non vale per tutti ovviamente e spesso prevale un trattamento comico del tema teso a esorcizzare   timori ancora vivissimi o a sfumare grandi dilemmi morali. In ogni caso il maggiore tabù del nostro tempo è forse la questione della differenza fra gli esseri umani, che si tratti di pelle di colore diverso o di conflitti di genere, non solo tra uomo e donna ma tra identità sessuali sempre più numerose: lesbian, gay, bisexual, transexual, transgendered, questioning o (queer): LGBTQ. Anziché un valore, la diversità sembra dover essere nascosta da definizioni sempre più tortuose e  florilegi retorici.
Hughes analizza la “falsità culturale” del fenomeno american, la diffidenza della politica convenzionale, l'atteggiamento scettico nei confronti di qualsiasi autorità e il trionfo della superstizione; una lingua corrosa dall'eufemismo. All’origine c’è il multiculturalismo, che nasce certamente come concetto positivo ma quando perde la misura e assume toni apocalittici finisce per riflettere un malessere culturale molto più profondo che in America è stato negli anni Ottanta quello dell’università. La specializzazione eccessiva, l’assurdo carrierismo dei board accademici che assomigliavano alla celebre accademia reale di Lagado delle Avventure di Gulliver di Jonathan Swift dove un manipolo di esperti lavorano per estrarre i raggi di sole dai cetrioli e per costruire le case del Regno. “All'interno delle università americane l'angolo di specializzazione è diventato così stretto (pur di trovare soggetti precedentemente sconosciuti di studi, tesi, e relazioni) che nessuno è più in grado di avanzare in una struttura più vasta...”. Una concezione politicamente corretta dovrebbe essere benvenuta in ogni campo nel momento in cui cerca nuove interpretazioni per vecchi problemi, ma l'eccezione presto si trasforma in una regola. E così si comincia difendendo la “vera storia” di quel particolare gruppo di indiani d’America e si finisce per decretare un attacco generalizzato contro ogni aspetto della civilizzazione americana.
Pensiamo ad alcune battaglie contro antologie di classici e libri “canonici”. Certo, l'idea di costruire una gerarchia con valori potenzialmente eterni e lontani da ogni considerazione sulle vicissitudini del presente ha i suoi limiti. Ma il relativismo assoluto, per converso, rischia di uccidere ogni tentativo di critica letteraria. Insomma non possiamo parlare di classici di letteratura, perché il Moby Dick di Melville è politicamente scorretto e, con esso, una lunga sfilza di titoli e autori che abbiamo sempre amato?
Ma c’è di più purtroppo. Il fenomeno è in crescita secondo i dati dell’Office for Intellectual Freedom e dell’American Library Association: ogni anno solo negli Stati Uniti d'America vengono banditi o censurati centinaia di titoli e la Bibbia resta tra i testi più colpiti. Diminuisce invece, per assuefazione, il numero di coloro che si oppongono alle iniziative censorie e cambiano i soggetti che si sentono offesi dal contenuto di un libro e che chiedono di vietarlo: sempre meno professori universitari e sempre più studenti. Come dire che il contagio della sindrome “pol. corr.” ha ormai preso piede sempre più nelle nuove generazioni, tanto in America quanto in Europa. Due giovani, Anna e Mia, hanno trovato il tempo di lanciare una petizione per protestare contro l’esposizione al Metropolitan Museum di un quadro del celebre artista Balthus raffigurante un’adolescente discinta (Therèse Dreaming). L’accusa: il dipinto è un invito alla pedofilia. Ma l’aspetto preoccupante è che hanno raccolto migliaia di firme di persone che la pensano come loro e che, se quel quadro dovesse davvero essere oscurato, la stessa sorte finirebbe prima o poi per toccare a una lunghissimo elenco di opere “degenerate”: dalle decorazioni osé sui vasi di terracotta dell’antica Grecia alle Demoiselles d’Avignon di Picasso. 
Oggi quando parliamo di fondamentalismo pensando all'Islam o al terrorismo, ma il “morbo” in questione è in qualche modo una forma di fondamentalismo culturale che coinvolge potenzialmente ogni genere di asserzione politica o culturale. Il dogma richiede giusti comportamenti sessuali, il corretto gusto letterario, lo stesso stile normalizzato nel parlare e nello scrivere. La situazione è peggiorata dopo l’11 Settembre 2011 e poi dopo l’attentato di Parigi alla sede di Charlie Hebdo del novembre 2015 perché è cresciuto il clima di odio e paura su ogni fronte. Il settimanale satirico francese, accusato per le vignette sacrileghe con protagonista il profeta dell’Islam Maometto, oggi continua a pubblicare i suoi strali umoristici e i suoi disegni al vetriolo ma lo spirito con cui lo fa non sarà mai lo stesso di prima, perché è aumentato il timore di usare tutta la libertà che abbiamo a disposizione in base a leggi che abbiamo conquistato in secoli di battaglie per il diritto alla libera espressione. Tutto questo nella situazione paradossale del trionfo indisturbato degli haters sui social network e sul web, dove gli umori più fetidi dell’ultimo (o primo) idiota possono colpire davvero chiunque su scala universale sotto la protezione dell’anonimato. In questa situazione di violenza (non solo verbale) liberata e amplificata è evidente che l’ansia della correttezza rischia di colpire in modo indiscriminato qualunque obiettivo: dai commenti insulsi sul web alla narrativa letteraria. Ma sono i tweet dei politici fuori controllo e le minacce via Facebook che andrebbero frenati, non i romanzi o le esposizioni d’arte. E se cresce il fronte di chi si sente minacciato da idee, usi e costumi dell’“altro”, che vede come pericolosi per la sua stessa sopravvivenza, si spiega anche il successo dei movimenti populisti e la rinascita di quelli di stampo fascista che a loro volta contribuiscono ad aggiungere benzina sul fuoco delle paure dell’Occidente. 
All’indomani dell’attacco terroristico “di matrice islamica” alle Torri gemelle, La Rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci, duro atto di accusa sulla decadenza della civiltà occidentale incapace di difendersi dal “nemico in casa”, ha scatenato una lunga polemica che ha probabilmente influito sulla mancata pubblicazione del saggio in alcuni dei Paesi in cui i libri dell’autrice erano normalmente tradotti. Ma se ogni dibattito anche acceso e furioso è sacrosanto, non si può dire lo stesso del tentativo di cancellare una tesi che non si condivide. Non esiste una buona “censura”, sia essa rivolta “contro l’arte degenarata”, come nel caso dei falò di libri nel Terzo Reich, o “a favore delle minoranze” come oggi. Il rischio che la minoranza finisca per diventare una “maggioranza dispotica” (secondo la definizione di Tocqueville) è molto alto e a volte c’è più intolleranza nel gesto del divieto, che vale nei confronti di tutti, che in quello di chi scrive che si rivolge comunque solo al pubblico consapevolmente interessato a leggerlo. Quindi nessun divieto alla pubblicazione del Mein Kampf hitleriano? Non credo che qualcuno pensi seriamente che un bando possa impedirne davvero la diffusione o frenare il risorgere di associazioni che si rifanno al nazismo. Sarebbe assai più utile obbligare alla pubblicazione del testo con un apparato di note che spieghino il delirio dell’imbianchino austriaco.
Christopher Hitchens derideva la tendenza censoria a stelle e strisce: “Il gruppo sovrappeso della fazione lesbica dei transessuali cherokee disabili chiede di essere ascoltato sui propri bisogni. Ma mai abbastanza. Da modo di essere radicali diventò in breve tempo un modo di essere reazionari”. Ma una satira parla soprattutto a chi già la pensa in modo diverso dal soggetto preso di mira. E anziché assuefarsi al nuovo corso o fare spallucce pensando ci siano questioni più importanti, varrebbe la pena di alzare il livello della discussione e controbattere seriamente alle iniziative più dannose. Non possiamo ridurci a definire un uomo disonesto “moralmente disorientato”, un ragazzo pigro “carente di motivazioni” e una persona brutta “cosmeticamente differente”. Per riprendere un paradosso efficace, non possiamo nemmeno trasformare uno sport come il tennis in un gioco corretto perché questo comporterebbe probabilmente l’abolizione della sua parte più elitista, la rete. E la soluzione al problema della “correttezza” non sta quasi mai nell’eliminare le differenze.