Come la sindrome del
politicamente corretto ha contagiato il mondo dei
libri
Che cosa accadrà al vecchio verro della Fattoria degli animali di Orwell e ai Tre porcellini in lotta col lupo? Spariranno per sempre dai nostri scaffali e dal nostro immaginario? Saranno sostituiti da animali più presentabili e politicamente corretti? A spingerli tra le specie a rischio d’estinzione è l’epidemia del politicamente corretto che ha progressivamente contagiato la cultura occidentale. Per fortuna i suini di cui sopra non si trovano nel catalogo della prestigiosa Oxford University Press, vista la nuova linea editoriale che ha proibito ai suoi autori di menzionare nei testi le parole "maiale" e "carne di maiale" (e le loro brave derivazioni: salsicce, salame, prosciutto e via insaccando) con l’intento di non offendere i lettori musulmani ed ebrei.
Sono solo linee guida, secondo
l’editore inglese: "Pubblichiamo libri in 200 Paesi e consigliamo
sempre ai nostri autori di rispettare le sensibilità locali, le differenze
culturali". Proposito nobilissimo naturalmente, ma se dovessimo rispettare
la “sensibilità” di ogni gruppo,
comunità e individuo in ogni pubblicazione e magari con effetto retroattivo su qualunque
testo della letteratura mondiale, ci troveremo prima o poi a vagare in un mesto
cimitero di parole defunte e di epitaffi alla fine dell’immaginazione. Come
rischia di accadere ne La meravigliosa O
(1957) di James Thurber, storia di un pirata che si impadronisce di un’isola e
mette al bando la lettera O, che detesta in modo viscerale da quando la madre è
rimasta incastrata in un oblò. Per fortuna i ribelli sull’isola non mancano,
continueranno a parlane con la lettera vietata e
manderanno a monte il piano del corsaro perché “a coat is not a cat and a boat
is not a bat” o, nella versione italiana, “quando voglio le uova non voglio
l’uva”.
Un chiaro esempio del rischio che corriamo è
rintracciabile nelle fiabe
politicamente corrette riscritte da James Finn Garner. Nelle nuove versioni dei
classici per l’infanzia l’imperatore non è più nudo ma segue la moda di
stagione, Biancaneve si rifugia dai sette diversamente alti, Riccioli d’oro è
una scienziata impegnata a studiare l’antropomorfismo degli orsi e le sirene si
vedono finalmente riconosciuti i diritti fondamentali che quel conservatore di
Hans Christian Andersen non aveva mai concesso ai protagonisti delle sue storie
(nell’Ottocento). Più che un adattamento, una satira che mette alla berlina il
tentativo di normalizzare anche le più tradizionali forme narrative per
proteggere i bambini (ma forse gli adulti in primis) dalle ingiustizie del
mondo. Ma il rischio di svegliarsi in un incubo di anodina perfezione è dietro
l’angolo e tenderebbe ad assomigliare purtroppo alla dittatura di 1984 di
Orwell dove il partito unico ha imposto una neolingua priva di sfumature eterodosse
e il Ministero della Verità si preoccupa di correggere testi e articoli del
passato perché corrispondano al dettato del Grande Fratello. Inevitabile il
riferimento al futuro distopico di Farenheit 451 (la temperatura a cui
brucia la carta) di Ray Bradbury in cui il pompiere Montag è addetto a
incendiare le case di chi viola la legge conservando i libri banditi: “Era
una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate,
vederle annerite... per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della
storia”.
Prendiamo uno dei grandi personaggi della
storia della letteratura: il capitano Achab del Moby
Dick di Herman Melville. Fino a qualche tempo fa non avremmo avuto
difficoltà a definirlo semplicemente un cacciatore di
balene. Ma per un numero crescente di persone andrebbe chiamato col suo “vero
nome”: “una persona portatrice di un comportamento scorretto nei confronti dei
cetacei a rischio di estinzione”, un uomo contrario a ogni regola fondamentale
per la conservazione del patrimonio ambientale, anzi un rappresentante convinto
del dispotismo del mercato globale, pronto a fare affari con l'industria
monopolistica dell'olio. Se pensate di potervi imbattere in
una definizione di questo tenore solo negli ambienti più radicali di qualche città
liberal americana siete molto ottimisti: ora potrebbe capitarvi in molti paesi al
di qua dell’Atlantico e vi conviene esser pronti ad esser coperti di improperi se
sosterrete tesi differenti sull’argomento con dichiarazioni non
sufficientemente eufemistiche.
Nella nuova versione di Huckleberry Finn di Mark Twain, curata dal
professor Alan Gribben, la parola nigger è
stata sostituita con slave (schiavo) ed è scomparso
il termine injun (indiano) per non urtare la
sensibilità delle
minoranze pellerossa. Senza considerare però che il testo così finisce per
cambiare il significato attribuito dall’autore che, quando ha scritto il libro
alla fine dell’Ottocento, ha usato parole di uso comune che non avevano alcun
intento spregiativo. Si potrebbe aggiungere che non si tratta di un comportamento
tanto nuovo in fondo. Prendiamo le istruzioni che Elio Vittorini diede nel 1964
a Fernanda Pivano, traduttrice delle poesie di Allen Ginsberg: “Sostituire
sperma con seme; sostituire l’ultima sbora con l’ultimo sperma",
"sostituire buco del culo con b.d.c.", "sostituire cazzo con
membro", "sostituire l’intera parola culi con tre puntini",
"sostituire l’intera parola cazzo con tre puntini". Il tutto si
ritrova in una lettera inviata dalla direzione editoriale Mondadori; ma il contesto era differente
e la versione edulcorata di Howl era volto a
evitare problemi in vista della pubblicazione di un’antologia poetica, visto
"il moralismo della Magistratura Italiana".
Il fenomeno del politicamente corretto, mosso
dal desiderio di evitare ogni forma di emarginazione dei più deboli, sarebbe in
fondo condivisibile da chiunque se non raggiungesse punte radicali ed effetti
parossistici nocivi per tutti. Il rischio è anzitutto che si riduca a una pura
manifestazione di conformismo: una piccola maschera che ci abituiamo a indossare
per non risultare antiquati. Un comportamento di adesione alle convenzioni
volto a nascondere la nostra identità reale che finisce per trasformarsi, giorno dopo giorno, in
quella ufficiale. Diciamo alcune cose perché altri ci assicurano che sono quelle corrette
e infine noi stessi crediamo che lo siano. Anni fa per
esempio la parola globalizzazione evocava straordinari e pluriennali piani di
sviluppo in vista del raggiungimento della prosperità planetaria. Ora è l’esatto
opposto: non essere schierati contro la globalizzazione può crearvi qualche
problema. E da questo punto di vista il mercato editoriale della carta
stampata è uno specchio perfetto di questo fenomeno: tutti – chi più chi meno –
hanno contribuito all’esaltazione dei fecondi destini di internet e delle sue
prospettive neodemocratiche, aspettando solo la conclusione del flusso positivo
per virare freneticamente verso posizioni virulentemente antitetiche alle
precedenti.
A ben guardare, adottare il metodo della
correttezza politica può essere un modo di affrontare i nostri tabù, e le
proibizioni che li circondano, è un modo di nascondere soprattutto le nostre
paure di fronte a ciò che è diverso o appare tale. Azar Nafisi, autrice di Lolita a Teheran
sostiene che “il politicamente corretto è assolutamente incompatibile con la
letteratura perché non consente alcun tipo di dibattito e punta a eliminare i
pregiudizi facendo appello alle emozioni”. Un’affermazione fatta con cognizione
di causa considerando che l’autrice iraniana ha dovuto lasciare il suo Paese
per le critiche scatenate dal suo romanzo. Si cercano soluzioni facili a
situazioni complesse, ma l’arte e la letteratura hanno un altro compito:
dovrebbero metterci di fronte al caos dell’esistenza attraverso l’invenzione e
farci sentire a disagio può essere una conseguenza necessaria.
Qual è allora l’origine del fenomeno “Pol. Corr.”? È un concetto esclusivamente yankee?
È davvero un pericolo
nuovo dal punto di vista storico? Nella sua Cultura del
piagnisteo Robert Hughes suggerisce un'origine “tribale”. Non a caso
la parola taboo (nell’adattamento inglese) o tabou (in quello francese) viene da alcune
splendidi atolli del Pacifico dove veniva utilizzata per indicare gli oggetti
più sacri e proibiti. Ma la fortuna del termine arriva grazie alle
interpretazioni antropologiche e alle teorie psicologiche (Freud in testa).
Come ogni forma di tabù il canone politicamente corretto cambia a seconda delle
latitudini, della cultura e dei periodi storici. Nel mondo contemporaneo
sembrano perdere forza progressivamente tabù tradizionali come la morte, la
malattia e il sesso. Anche se non vale per tutti ovviamente e spesso prevale un
trattamento comico del tema teso a esorcizzare timori
ancora vivissimi o a sfumare grandi dilemmi morali. In ogni caso il maggiore
tabù del nostro tempo è forse la questione della differenza fra gli esseri
umani, che si tratti di pelle di colore diverso o di conflitti di genere, non
solo tra uomo e donna ma tra identità sessuali sempre più numerose: lesbian, gay, bisexual, transexual,
transgendered, questioning o (queer): LGBTQ. Anziché un valore, la diversità sembra dover essere nascosta da definizioni
sempre più tortuose e florilegi
retorici.
Hughes
analizza la “falsità culturale” del fenomeno american, la
diffidenza della politica convenzionale, l'atteggiamento scettico nei confronti
di qualsiasi autorità e il trionfo della
superstizione; una lingua corrosa dall'eufemismo. All’origine c’è il
multiculturalismo, che nasce certamente come concetto positivo ma quando
perde la misura e assume
toni apocalittici finisce per riflettere un malessere culturale molto più
profondo che in America è stato negli anni Ottanta quello dell’università. La specializzazione eccessiva, l’assurdo
carrierismo dei board accademici che assomigliavano alla celebre accademia
reale di Lagado delle Avventure di Gulliver di
Jonathan Swift dove un manipolo di esperti lavorano per estrarre i raggi di
sole dai cetrioli e per costruire le case del Regno. “All'interno delle
università americane l'angolo di specializzazione è
diventato così stretto (pur di trovare soggetti precedentemente sconosciuti di
studi, tesi, e relazioni) che nessuno è più in grado di avanzare in una
struttura più vasta...”. Una concezione politicamente corretta dovrebbe essere
benvenuta in ogni campo nel momento in cui cerca nuove interpretazioni per
vecchi problemi, ma l'eccezione presto si trasforma in una regola. E così si
comincia difendendo la “vera storia” di quel particolare gruppo di indiani
d’America e si finisce per decretare un attacco generalizzato contro ogni
aspetto della civilizzazione americana.
Pensiamo ad alcune battaglie contro antologie
di classici e libri
“canonici”. Certo,
l'idea di costruire una gerarchia con valori potenzialmente eterni e lontani da
ogni considerazione sulle vicissitudini del presente ha i suoi limiti. Ma il
relativismo assoluto, per converso, rischia di uccidere ogni tentativo di
critica letteraria. Insomma non possiamo parlare di classici di letteratura,
perché il Moby Dick
di Melville è politicamente scorretto e, con esso, una lunga sfilza di titoli e
autori che abbiamo sempre amato?
Ma c’è di più purtroppo. Il fenomeno è in
crescita secondo i dati dell’Office for Intellectual Freedom e dell’American
Library Association: ogni anno solo negli Stati Uniti d'America vengono banditi
o censurati centinaia di titoli e la Bibbia resta tra i testi più colpiti.
Diminuisce invece, per assuefazione, il numero di coloro che si oppongono alle
iniziative censorie e cambiano i soggetti che si sentono offesi dal contenuto
di un libro e che chiedono di vietarlo: sempre meno professori universitari e sempre
più studenti. Come dire che il contagio della sindrome “pol. corr.”
ha ormai preso piede
sempre più nelle nuove generazioni, tanto in America quanto in Europa. Due
giovani, Anna e Mia, hanno trovato il tempo di lanciare una petizione per
protestare contro l’esposizione al Metropolitan Museum di un quadro del celebre
artista Balthus raffigurante un’adolescente discinta (Therèse Dreaming). L’accusa: il dipinto è un invito alla pedofilia.
Ma l’aspetto preoccupante è che hanno raccolto migliaia di firme di persone che
la pensano come loro e che, se quel quadro dovesse davvero essere oscurato, la
stessa sorte finirebbe prima o poi per toccare a una lunghissimo elenco di
opere “degenerate”: dalle decorazioni osé sui vasi di terracotta dell’antica
Grecia alle Demoiselles d’Avignon di
Picasso.
Oggi quando parliamo di fondamentalismo
pensando all'Islam o al terrorismo, ma il “morbo” in questione è in qualche
modo una forma di fondamentalismo culturale che coinvolge potenzialmente ogni
genere di asserzione politica o culturale. Il dogma richiede giusti
comportamenti sessuali, il corretto gusto letterario, lo stesso stile
normalizzato nel parlare e nello scrivere. La situazione è peggiorata
dopo l’11 Settembre 2011 e poi dopo l’attentato di Parigi
alla sede di Charlie Hebdo del novembre 2015 perché è cresciuto il clima di
odio e paura su ogni fronte. Il settimanale satirico francese, accusato per le
vignette sacrileghe con protagonista il profeta dell’Islam Maometto, oggi continua
a pubblicare i suoi strali umoristici e i suoi disegni al vetriolo ma lo
spirito con cui lo fa non sarà mai lo stesso di prima, perché è aumentato il
timore di usare tutta la libertà che abbiamo a disposizione in base a leggi che
abbiamo conquistato in secoli di battaglie per il diritto alla libera
espressione. Tutto questo nella situazione paradossale del trionfo indisturbato
degli haters sui social network e sul web, dove gli umori più fetidi
dell’ultimo (o primo) idiota possono colpire davvero chiunque su scala
universale sotto la protezione dell’anonimato. In questa situazione di violenza
(non solo verbale) liberata e amplificata è evidente che l’ansia della
correttezza rischia di colpire in modo indiscriminato qualunque obiettivo: dai
commenti insulsi sul web alla narrativa letteraria. Ma sono i tweet dei
politici fuori controllo e le minacce via Facebook che andrebbero frenati, non
i romanzi o le esposizioni d’arte. E se cresce il fronte di chi si sente
minacciato da idee, usi e costumi dell’“altro”, che vede come pericolosi per la
sua stessa sopravvivenza, si spiega anche il successo dei movimenti populisti e
la rinascita di quelli di stampo fascista che a loro volta contribuiscono ad
aggiungere benzina sul fuoco delle paure dell’Occidente.
All’indomani dell’attacco
terroristico “di matrice islamica” alle Torri gemelle, La Rabbia e
l’orgoglio di Oriana Fallaci, duro atto di accusa sulla decadenza della
civiltà occidentale incapace di difendersi dal “nemico in casa”, ha scatenato
una lunga polemica che ha probabilmente influito sulla mancata pubblicazione
del saggio in alcuni dei Paesi in cui i libri dell’autrice erano normalmente
tradotti. Ma se ogni dibattito anche acceso e furioso è sacrosanto, non si può
dire lo stesso del tentativo di cancellare una tesi che non si condivide. Non
esiste una buona “censura”, sia essa rivolta “contro l’arte degenarata”, come
nel caso dei falò di libri nel Terzo Reich, o “a favore delle minoranze” come
oggi. Il rischio che la minoranza finisca per diventare una “maggioranza
dispotica” (secondo la definizione di Tocqueville) è molto alto e a volte c’è
più intolleranza nel gesto del divieto, che vale nei confronti di tutti, che in
quello di chi scrive che si rivolge comunque solo al pubblico consapevolmente
interessato a leggerlo. Quindi nessun divieto alla pubblicazione del Mein
Kampf hitleriano? Non credo che qualcuno pensi seriamente che un bando possa
impedirne davvero la diffusione o frenare il risorgere di associazioni che si
rifanno al nazismo. Sarebbe assai più utile obbligare alla pubblicazione del
testo con un apparato di note che spieghino il delirio dell’imbianchino
austriaco.
Christopher
Hitchens derideva la tendenza censoria a stelle e strisce: “Il gruppo
sovrappeso della fazione lesbica dei transessuali cherokee disabili chiede di
essere ascoltato sui propri bisogni. Ma mai abbastanza. Da modo di essere
radicali diventò in breve tempo un modo di essere reazionari”. Ma una satira parla
soprattutto a chi già la pensa in modo diverso dal soggetto preso di mira. E
anziché assuefarsi al nuovo corso o fare spallucce pensando ci siano questioni
più importanti, varrebbe la pena di alzare il livello della discussione e
controbattere seriamente alle iniziative più dannose. Non possiamo ridurci a definire un uomo disonesto “moralmente
disorientato”, un ragazzo pigro “carente di motivazioni” e una persona brutta
“cosmeticamente differente”. Per riprendere un paradosso efficace, non possiamo
nemmeno trasformare uno sport come il tennis in un gioco corretto perché questo
comporterebbe probabilmente l’abolizione della sua parte più elitista, la rete.
E la soluzione al problema della “correttezza” non sta quasi mai nell’eliminare
le differenze.