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11.30.2017

IL CIBO FA LA STORIA

(DA PRETEXT)

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Il successo della Food History: da Michael Pollan a Adam Gopnik, da Jared Diamond a Mark Kurlansky, da Piero Camporesi a Massimo Montanari

Nel 1667 Olanda e Gran Bretagna conclusero un lungo conflitto con il trattato di Breda che stabilì, tra l’altro, lo scambio tra l’isola di Run nell’Oceano Pacifico, ceduta agli olandesi, e l’isola di Manhattan che passò agli inglesi. Il baratto, visto col senno di poi, fu decisamente favorevole agli inglesi, o meglio ai discendenti dei coloni britannici, ma all'epoca ad aver fatto un affare sembrarono soprattutto i Paesi Bassi, che lasciavano New Amsterdam, poco promettente insediamento alle foci dello Hudson, con il più esotico e ricco atollo vulcanico indonesiano da cui proveniva il seme della noce moscata. Come potevano immaginare che quella zona  palustre sarebbe diventata la grande New York, città di riferimento dell’età contemporanea? La vicenda è stata raccontata nel dettaglio da Giles Milton nell'Isola della noce moscata, libro in cui l'autore ricostruisce sapientemente, tra avventure eroiche e bizzarre di esploratori e pirati, come nell'Europa tra Quattrocento e Seicento le spezie, rappresentarono una merce più preziosa dell'oro, determinando fondamentali scoperte geografiche e condizionando di fatto i destini del mondo.
Se ci è noto che la cioccolata, la bevanda degli dei, ha fatto la sua prima comparsa in Europa circa cinquecento anni fa nella forma di semi di cacao offerti dagli indigeni Maya a Cristoforo Colombo o che l’incendio del Boston Tea party è stato all’origine della guerra d’indipendenza americana, quanti conoscono l’influenza dello zafferano sulle sorti dell’uomo sul pianeta? Pochi, probabilmente, almeno prima della pubblicazione di libri come Lo zafferano di Pat Willard che rintraccia le origini di quella polvere magica che prima di raggiungere le nostre tavole è stata raccolta nell’antica Persia, è divenuta una spezia ricercata, ha allietato i bagni di Cleopatra e le cerimonie dei Romani, arricchito i banchetti medioevali e infine caratterizzato alcuni piatti tradizionali della cucina di mezzo mondo. Sono pochi anche coloro che avrebbero osato affermare che il merluzzo ha cambiato il corso della storia del mondo prima della pubblicazione del Merluzzo di Mark Kurlasnky dove si racconta l’autentica, quanto misconosciuta vicenda di un pur illustre protagonista delle nostre tavole, sotto la forma di baccalà o stoccafisso. Nell’era della gastronomia in cui siamo immersi, dove il mercato librario è letteralmente trasformato dal successo dei molti libri di ricette di chef più e meno noti come dal trionfo della food fiction, i libri di Milton, Willard e Kurlansky rientrano pienamente in un filone saggistico che conferma la “profezia” di Ludwig Feuerbach secondo cui “l’uomo è ciò che mangia” e che comprende la storia della patata di Larry Zuckermann ma anche saggi ben precedenti del filologo come Piero Camporesi, studioso della Scienza in cucina di Pellegrino Artusi e autore del Pane selvaggio o del Paese della fame, che hanno il pregio di raccontare con competenza e buona capacità narrativa una storia solo apparentemente laterale. Per condurci a scoprire, per esempio, che è stato probabilmente proprio inseguendo i banchi di merluzzo che i vichinghi e i baschi arrivarono alle coste nordamericane ben prima di Cristoforo Colombo.
Se è più naturale affermare che il computer, la radio o qualche altra scoperta o invenzione tecnologica hanno cambiato la storia dell’uomo, è assai meno scontato ricostruire come e perché spezie come la lavanda o sostanze come il sale abbiano influito sui grandi avvenimenti come sui cosiddetti cambiamenti di lunga durata, e cioè i costumi e le abitudini dei popoli. Ecco perché, accanto alla rispettabilissima storia dei grandi eventi, resta da scoprire un’inesauribile miniera di microstorie e di sorprendenti comparse e protagonisti minori che rappresentano un modo alternativo di rileggere il passato in modo piacevole e poco convenzionale. In passato – come ha scritto Carlo Ginzburg - si potevano accusare gli storici di voler conoscere soltanto le "gesta dei re". Oggi, certo, non è più così. Sempre più essi si volgono verso ciò che i loro predecessori avevano taciuto o semplicemente ignorato. Radicalizzando in fondo gli insegnamenti di una scuola storica che ha raggiunto vette importanti con il Montaillou di Emmanuel Le Roy Ladurie o con La domenica di Bouvines di Georges Duby e superando gli stessi dettami della cosiddetta storia della mentalità e della lunga durata inaugurata dai maestri francesi delle Annales. Il Formaggio e i vermi sono per esempio le parole del titolo di uno dei saggi più affascinanti di Ginzburg ma anche le forme, gli oggetti e gli odori dell’universo di Domenico Scandella, detto Menocchio attraverso cui l’autore ricostruisce la storia misconosciuta di un mugnaio nato a Montereale in Friuli, sposato con sette figli (e altri quattro morti), che il 28 settembre1583 fu denunciato al Sant’Uffizio per  aver pronunciato parole "ereticali e empissime" su Cristo, e condannato al rogo in occasione del giubileo del 1600. 
Di Menocchio è parente in qualche modo Monsieur Pinagot. Nato nel 1798, in un minuscolo villaggio della Normandia, ai limiti della foresta, non si è mai allontanato da quei luoghi per l’intera sua esistenza. Per guadagnarsi da vivere, fabbricava zoccoli. Non sapeva né leggere né scrivere. Alla sua morte, nel 1876, è silenziosamente scivolato nell’oblio, finché lo storico Alain Corbin non ne ha trovato il nome negli archivi e ha cominciato un’inchiesta di grande interesse, Il mondo ritrovato di Louis François Pinagot, dove ha cercato di capire chi fosse e che cosa potesse pensare uno dei milioni di esseri umani che ci hanno preceduto nel corso della storia senza lasciare tracce. E per ricostruire l’universo e l’epoca del protagonista l’autore della Storia sociale degli odori indaga anzitutto il formaggio e i vermi appunto o meglio, in questo caso, il frumento e l’orzo coltivati oltre le foreste della Perche, qualche maialino da latte, il sidro consumato in compagnia di altri zoccolai alla fiera di Saint Martin, poche vacche e capre per il burro e il formaggio, il pane che durante la crisi d’inizio Ottocento è sostituito dai legumi, patate e latticini, perché la tavola di Pinagot e della sua famiglia riassume per molti aspetti la sua esistenza dimenticata.
La cosiddetta Food history privilegiando l’indagine economica, ambientale, antropologica e culturale rispetto a quella culinaria tradizionale, è un campo di studio in continua crescita grazie anche all’interdisciplinarietà che la caratterizza. Manca una definizione precisa, potremmo parlare forse di cibologia, ma come tradurre efficacemente neologismi come foodscape, il contesto, o paesaggio alimentare di un’epoca? Dall’Oxford Food Symposium del 1981 a oggi gli studi sul cibo hanno trovato un numero crescente di cultori nei campi più disparati, dalla sociologia alla filosofia, dalla scienza all’etica con corsi universitari, associazioni e istituzioni nate e sviluppatesi dal Nord America (il Master della Chatham University per esempio) all’Italia (l’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, animata dal fondatore di Slow Food Carlo Petrini e dove insegna anche Massimo Montanari, tra i fondatori della rivista “Food & History” e del Master in Storia e cultura dell’alimentazione della Facoltà di lettere di Bologna istituito in collaborazione con le Università di Tours, Barcellona e Bruxelles, e autore di opere come La fame e l’abbondanza.  
Tra i fautori dei Food Studies ci sono anche saggisti come Michael Pollan, autore del bestseller il Dilemma dell'onnivoro, dove analizza, un piatto dopo l’altro, il tipico pranzo americano mostrando cosa nascondono effettivamente le singole portate al di là delle etichette riportate su cibi e prodotti o Tom Standage, autore di una Storia commestibile dell’umanità che vede il cibo come una "forchetta" invisibile che ha costantemente pungolato il corso evolutivo della civiltà umana. 
Cosa c'entra per esempio la Rivoluzione francese con chef e ristoranti? Molto secondo il saggista americano Adam Gopnik perché dopo il 1789 a Parigi gran parte delle famiglie nobili erano fuggite da Parigi, quando non erano finite in carcere o sotto i ferri del boia, lasciando deserti gli hôtel particulier e senza lavoro la servitù e i raffinati cuochi domestici. Fu probabilmente proprio quando questi ultimi iniziarono a proporre al pubblico i loro servizi culinari che videro la luce i primi ristoranti "stellati". È solo una delle molte vicende che Gopnik ricostruisce col gusto del grande storico del costume e l'ironia del letterato raffinato nel suo saggio su cibo e cucina nel mondo, con la sfida tra cabernet californiano e bordeaux francese, la cucina giapponese, i fast food e molto altro.
Prendiamo il caso di un saggio che incrocia abilmente storia, biologia, archeologia, genetica e antropologia come Armi, acciaio e malattie di Jared Diamond. Per Bill Gates «è la spiegazione più convincente del perché gli occidentali siano riusciti a conquistare il resto del mondo, e non viceversa» e ad apprezzare il premio Pulitzer non è stato isolato considerando il grande successo internazionale del libro. La ragione essenziale della storica "superiorità" sta secondo l'autore nella grande rivoluzione agricola dell'età neolitica e nell’allevamento degli animali, rese possibile in Eurasia da una serie favorevole di condizioni geografiche e climatiche che consentirono per la prima volta la produzione di cibo in alternativa a caccia e raccolta, cambiando la dieta dell'uomo e consentendo uno straordinario aumento della popolazione e uno sviluppo tecnologico senza uguali in altre parti del mondo. Nel suo racconto appare chiaro come la domesticazione della mandorla, dell'olivo o del melo, per fare qualche esempio, hanno conseguenze più importanti di quanto non sia mai stato considerato sui libri di storia. Tra le piante oggi coltivate, ma originariamente velenose, ci sono infatti anche i fagioli, i cocomeri, le patate, le melanzane e i cavoli: tutti casi in cui una qualche mutazione deve aver dato origine a qualche esemplare commestibile, che i primi agricoltori fecero germogliare e coltivarono in proprio.
Il cibo conta, insomma e una caso lampante è anche quello della conquista del Nuovo Mondo da parte degli Europei nel corso del Sedicesimo secolo dove hanno avuto un ruolo preponderante malattie portate da animali da allevamento che entravano a pieno titolo nel sistema alimentare occidentale. La maggioranza degli americani nativi morì infatti a causa dei microbi d'importazione che non in combattimento. E a importarli furono principalmente animali come buoi e maiali che gli spagnoli trasportarono massicciamente nei nuovi territori per replicare il loro modello economico e produttivo nonché le abitudini alimentari.
Ma l’alimentazione non spiega solo mutamenti millenari e svolte storiche planetarie. È anche uno strumento utilissimo per indagare per esempio la storia a noi più vicina e i suoi personaggi. La mezza pera offerta in altri tempi e con rigorosa naturalezza alla parca mensa del  presidente della Repubblica Luigi Einaudi o il patto della crostata, apparentemente destinato all’epoca a suggellare una tregua sulle riforme costituzionali tra D’Alema e Berlusconi, sono probabilmente, oggetti ed eventi destinati ad imprimersi nell’immaginario collettivo e nella stessa storia politica di un Paese assai più a lungo dei frequenti quanto spesso ‘impercettibili’ cambiamenti governativi che ne hanno cadenzato il lento trascorrere.
L’impressione è infatti che quello del costume politico sia spesso un modo di raccontare l’attualità e la storia recente del nostro Paese assai più penetrante e meno frivolo di quanto non si pensi. E tra i cultori di maggior successo di questo genere c’è senz’altro Filippo Ceccarelli, brillante notista e editorialista dei maggiori quotidiani, perfido osservatore di vizi e consuetudini del palazzo e dei suoi inquilini, siano essi i protagonisti più in vista della vita pubblica o gli scherani, i portaborse e le figure nell’ombra. Con sapienza e invidiabile memoria archivistica, senza mai eccedere nell’uso quasi automatico di metafore gastronomiche, l’autore ha ricostruito brillantemente nello Stomaco della Repubblica la storia del secondo dopoguerra, sbirciando nel piatto dei politici, illustrando gli usi culinari e conviviali dell’intero arco costituzionale, dall’insipida minestra servita ai membri della Consulta ai risotti dello chef preferito della sinistra, cucinati in diretta televisiva con l’abile regia di Bruno Vespa; il quale non a caso, nei suoi  numerosi bestseller pone sempre particolare attenzione alle mondanità culinarie della seconda Repubblica, ben sapendo che il menù di una serata al ristorante tra alleati di uno schieramento se non influisce direttamente sul risultato della stessa, resta comunque un ingrediente fondamentale di ogni abile ricetta narrativa e vale spesso di più del racconto di una strategica riunione nei palazzi del potere convocata appositamente per cambiare le sorti della nazione. Noi mortali abbiamo in fondo in comune con i potenti proprio il bisogno e il piacere di mangiare, e questo ce li avvicina e ci aiuta a capirli o detestarli esattamente come, per fare un altro esempio, l’esigenza e il desiderio del sesso, oggetto del precedente libro dello stesso Ceccarelli, Il letto e il potere, che è appunto una storia sessuale della Prima Repubblica. Inutile aggiungere che dai tortelli delle feste dell’Unità al caffè di Sindona, passando per il frigorifero di Bettino, cui solo il delfino Martelli pareva ammesso, lo stomaco della Repubblica sembra immancabilmente tutt’altro che sazio. E non solo di cibo, naturalmente.