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11.04.2016

SOPRAVVISSUTI IMMAGINARI


(DA IL LIBRAIO) 


L’incredibile vicenda di Enric Marco, protagonista politico della Spagna postfranchista, protagonista dell’affascinante nuovo romanzo di Javier Cercas, richiama alcuni casi di imposture editoriali di quello che si potrebbe riassumere, con qualche forzatura, come un drammatico “sottogenere” della letteratura dell’Olocausto ebraico, quello cioè delle false autobiografie. Marco si presentò nel dopoguerra come un sopravvissuto dello sterminio nazista con una testimonianza raccolta in Memorie dell’inferno del 1978 e rivelatasi solo più tardi frutto di una plateale menzogna. Ma il mercato editoriale ha registrato altri casi di confessioni d’invenzione spacciate per vere: è il caso di Frantumi in cui Benjamin Wilkomirski racconta la sua esperienza di bambino nei campi di sterminio tedeschi della seconda guerra mondiale: pubblicato nel 1995, fu subito accolto con favore della critica e tradotto in tutto il mondo. Peccato che la storia fosse stata più o meno coscientemente inventata dalla fervida immaginazione dell'autore.
Un caso diverso è stato quello del sopravvissuto dell'olocausto Herman Rosenblat, che Oprah Winfrey invitò al suo seguitissimo show televisivo. Presentò anzi in anteprima il memoir dell’ospite in via di pubblicazione, Angel at the Fence, come “la più grande storia d'amore" che avesse mai letto. Una citazione che avrebbe funzionato in modo straordinario nel lancio del libro se il libro non fosse stato bloccato, come avvenne, per le troppe licenze di finzione che l’autore si prese per rendere sensazionale il suo racconto: in particolare dove  narrava di aver conosciuto la futura moglie quando lei aveva iniziato a portargli segretamente del cibo attraverso il filo spinato che circondava il campo di concentramento dov'era detenuto. Su quei particolari erano costruiti la trama e il titolo del libro stesso: quando alcuni studiosi fecero notare che l'episodio raccontato non avrebbe potuto aver luogo a Buchenwald, come si pretendeva, Rosenblat fu costretto ad ammettere il falso e l’editore americano decise di cancellare l’uscita del volume.
Clamoroso, alla fine degli anni Novanta, è stato anche il bluff di Misha Defonseca, autrice di Sopravvivere con i lupi, presentato come la storia vera di una bambina sopravvissuta alla Shoah risultò in seguito anch’esso inventato: Misha portava in realtà un altro nome, Monique, non era una bambina ebrea e non aveva mai attraversato a piedi le foreste dell'Europa orientale durante la guerra, accompagnata e protetta da una muta di lupi, alla ricerca dei genitori deportati nei lager nazisti. Un’invenzione che non ha impedito al libro di essere tradotto in una quindicina di lingue, di vendere milioni di copie nel mondo e di generare un film di un certo successo.

Gli esempi editoriali di una simile rassegna sul tema insomma non mancano: basti ricordare ancora il celebre Uccello dipinto di Jerzy Kozinski: quanto c’è di vero nello spunto autobiografico della travagliata esistenza di un bambino ebreo polacco nell’Europa del dopoguerra divenuto in seguito autore di fama internazionale? Le polemiche e il criterio della nuda verità dei fatti non sembrano in ogni caso aver impedito a quel testo di rimanere una lettura simbolo di un’epoca tragica della nostra storia.

11.02.2016

L'EDITORE COME PERSONAGGIO DA ROMANZO





(DA PRETEXT)

L’editor è quella strana figura professionale che non scrive libri (ci pensano gli autori), non li stampa (c’è il tipografo), non li vende (è compito del libraio), e non li distribuisce nemmeno. Il suo compito si limita più o meno a tutto il resto (copyright di Valentino Bompiani): va a caccia di autori, seleziona un testo da pubblicare, ne propone le modifiche necessarie e accompagna ogni fase della successiva gravidanza letteraria fino all’approdo  del libro sul mercato. Per qualcuno gli editor sono scrittori mancati ma è una definizione in fondo banale e un po’ troppo simile a quella usata per i giornalisti e poi bisognerebbe almeno ricordare il caso di editor-scrittori di successo come Elio Vittorini, Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Luciano Bianciardi che smentisce con una certa efficacia il trito luogo comune.
La verità è che sono semplicemente due mestieri diversi; più interessante notare come l’editor sia stato al di là del suo volere anche un ottimo personaggio da romanzo, forse grazie alle numerose invidie (non del tutto giustificate) che i gatekeepers del mondo dei libri tendono ad attirarsi, forse per il fascino (tutto presunto) del mondo letterario in cui vivono e sicuramente per l’ambigua natura del ruolo che ricoprono: mediatori, quali sono, tra la creatività artistica dell’autore e le regole del mercato che ogni sana impresa dovrebbe tentare di mettere in pratica. La comparsa dell’editor sulla pagina scritta, come protagonista o comprimario romanzesco, avviene in realtà relativamente tardi. E il motivo è molto semplice: la figura in questione è un’invenzione che risale agli inizi del Novecento e riguarda inizialmente soprattutto i Paesi anglosassoni; i primi editor tra l’altro si sono affermati nei giornali (questo in parte spiega la comune definizione spregiativa di cui si diceva inizialmente) dove c’era la necessità di correggere gli articoli per metterli in pagina ma anche di capire quali pezzi pubblicare per andare incontro nel modo migliore ai gusti dei lettori. Si dice che l’editor di maggior successo della storia sia stato Mosè con le tavole della legge (Dio l’“autore”) ma, al di là delle battute, prima del secolo scorso il campo era occupato più che altro da stampatori più o meno illuminati o piccoli e grandi tipografi, da Manuzio a Bodoni, e l’autore aveva a che fare direttamente con loro o, più tardi, con chi conduceva la casa editrice, l’imprenditore. L’editor, si diceva, resta in ogni caso un personaggio ambiguo: lavora per l’editore, ma contemporaneamente per i suoi autori di cui diventa spesso sodale (chi lo impiega lo stima e lo teme allo stesso tempo) e deve intercettare per tempo tendenze e gusti dei lettori anche quando questi vanno in direzioni che non corrispondono al suo gusto personale. La storia è ricca di editori che hanno avuto tra l’altro un “fiuto eccessivo” anticipando buone idee e tendenze che avrebbero potuto essere apprezzate solo più tardi: Siddharta di Herman Hesse, quando fu pubblicato nel 1922 non ebbe la circolazione che avrebbe conosciuto in seguito. I Malavoglia di Giovanni Verga fu un fiasco alla prima apparizione ma divenne poi un classico. Stessa sorte per Moby Dick di Herman Melville, che portò all’autore solo un successo postumo.
I primi esemplari personaggi da romanzo sono dunque gli editor in carne e ossa, entrati nella piccola mitologia della miglior letteratura: da Maxwell Perkins, editor di Francis Scott Fitzgerald per Scribner (non fosse stato per lui Il grande Gatsby porterebbe un altro titolo, Trimalchioo in West Egg) a Saxe Commins di Random House per alcune opere di Ernest Hemingway, da William Shawn del New Yorker per J. D. Salinger a Robert Gottlieb per John le Carré e Toni Morrison, da Diana Athill per V. S. Naipaul e Norman Mailer a Ezra Pound per La Terra desolata di Thomas Stearns Eliot (per non parlare del ruolo di Gordon Lish per Raymond Carver e di Tay Hohoff nella “ricostruzione” di un grande bestseller internazionale come Il buio oltre la siepe di Harper Lee, emersa con particolare evidenza con la pubblicazione dell’inedito Go Set a Watchman, che porta del resto lo stesso titolo con cui l’autrice americana aveva presentato il manoscritto originario del suo capolavoro).
Per arrivare, più recentemente, a Jonathan Galassi di Farrar, Straus and Giroux, editore di Jonathan Franzen, che ha raccontato mirabilmente una fase di passaggio dell’età dell’oro dell’editoria nordamericana in un romanzo di recente pubblicazione. Il protagonista è Paul Dukach, editor della Purcell & Stern, nome fittizio di una delle poche case editrici indipendenti di New York, per il giovane una grande scuola di mestiere e di sopravvivenza tra grandi gruppi editoriali, agenti famelici e competitor pronti a tutto per accaparrarsi l’autore di grido e il nuovo potenziale bestseller. Tra autori permalosi, caotiche fiere del libro in Europa e un duro quanto diplomatico lavoro sui manoscritti, Paul non dimentica di coltivare la sua passione per la poesia e in particolare per la poetessa Ida Perkins, che segnerà la sua vita. Paul sembra destinato a succedere al vecchio Homer Stern, lupo di mare dell’editoria ma è in qualche modo attratto anche dalla figura dell’anziano editore concorrente, Sterling Wainwright della Impetus Editions, vera e propria autorità culturale e paladino della Letteratura di qualità, simbolo di un mondo dei libri che pare destinato al tramonto. Tra Homer e Sterling corre inevitabilmente una grande rivalità, e non solo perché i due incarnano modi e visioni opposti, ma perché da sempre si contendono entrambi proprio Ida Perkins, la stessa affascinante poetessa che Paul fa di tutto per pubblicare. Quando il protagonista riuscirà finalmente a incontrare La Musa (questo il titolo del libro) a Venezia, verrà a conoscenza di una verità che potrebbe travolgere molte certezze. Chi si nasconde dietro ai personaggi in questione? Quanta di questa storia si nutre dell’autobiografia stessa dell’autore, classe 1949, presidente della prestigiosa Farrar, Straus and Giroux e scopritore di Jeffrey Eugenides, Jamaica Kincaid, Scott Turow o Michael Cunningham, nonché poeta egli stesso e traduttore in inglese di Montale e Leopardi? Quanto basta per calare perfettamente il lettore nella magica atmosfera di un mondo in definitiva trasformazione e fargli vivere sulla pelle la trama e le emozioni di una storia letteraria e di una passione professionale di grande fascino.
A margine della pubblicazione del libro, Galassi si è soffermato sulle storture di una produzione editoriale che tende oggi a sostituire i gusti personali dell’editor con le virtù delle funzioni algoritmiche di Amazon ed è difficile dargli torto. Cercando in Rete potrete imbattervi in un autore di 200.000 libri. Si chiama Philip Parker è docente di Management Science nonché inventore di un algoritmo che consente l’aggregazione di testi con un certo minimo comun denominatore. I suoi non sono veri e propri libri ma raccolte di dati e testi su un determinato argomento, dei compendi che utilizzano materiali liberi da copyright e rintracciabili in prevalenza sulla Rete La storia raccontata da Galassi richiama alla mente un libro pubblicato qualche anno fa. Martin Bauman, oltre che il protagonista dell’omonimo libro di David Leavitt, è l’alias dietro cui si cela l’autore stesso. Quest’ultimo, nato a Pittsburgh e cresciuto a Palo Alto in California si trasferisce sull’East Coast, si laurea in letteratura alla Yale University, inizia a lavorare per la celebre casa editrice Viking di New York e si afferma nel 1984, a soli ventitré anni, con Ballo di famiglia, ormai divenuto un classico della fiction contemporanea. Quanto al primo, Martin Bauman, all’inizio degli anni Ottanta, non ancora ventenne, viene ammesso in un prestigioso college americano per seguire i corsi del leggendario editor Stanley Flint, l’uomo capace di troncare il sogno di un aspirante scrittore ma anche di accompagnarlo nell’empireo del successo. E si trasforma ben presto in protagonista del fervente mondo letterario newyorkese. Come si vede, le vite dei due, più che procedere parallele, finiscono in realtà per incrociarsi assai spesso e non solo nella descrizione della brillante carriera di scrittori di entrambi, ma anche nel contrasto tra questa corsa ambiziosa al successo pubblico e la fragile vita privata dei due, dove Martin Leavitt e David Bauman (o viceversa) si confrontano con l’ombra del padre, professore alla Stanford Business School, in un caso, e con quella del padre letterario Stanley Flint, nel secondo: in ogni modo uno scomodo ideale di perfezione con cui occorre fare i conti per affermare la propria identità. Soprattutto se alle crisi sentimentali si somma la difficile affermazione dell’omosessualità del protagonista.
Ancora più reale è il personaggio principale de L’editore, lavoro molto precedente di Nanni Balestrini, dove un giovane regista, un professore universitario, un libraio e una giornalista si ritrovano per studiare come mettere in scena la straordinaria e breve parabola di Giangiacomo Feltrinelli  sullo sfondo delle lotte sociali degli anni Settanta, tra ideali rivoluzionari e reali deviazioni antidemocratiche degli apparati dello Stato. Chi ha lavorato in Feltrinelli negli anni Cinquanta traendone ispirazione per i suoi libri è, com’è noto, Luciano Bianciardi che, ne Il lavoro culturale, narra l’ironica storia di un intellettuale di provincia, convinto delle virtù dell’impegno culturale e del sapere nell’ottica di una responsabilità civile e politica destinata a incidere sulla realtà. È il ritratto di un’intera generazione di intellettuali di sinistra, ma anche delle loro illusioni: il trasferimento a Milano dalla Toscana, vissuto inizialmente come possibilità di reagire alle sue frustrazioni, si rivela per i  protagonista un fallimento. La vita nella metropoli e il ruolo culturale tanto ricercato finiscono per deluderlo e il discorso intellettuale iniziato con la Resistenza appare definitivamente tramontato.
Un maestro di libri sui libri e meta romanzi è sicuramente il francese Daniel Pennac. Nel suo La prosivendola racconta il lancio di un anonimo autore di bestseller internazionali sul mondo della finanza da parte di regina Zabo, direttrice della casa editrice Taglione che decide di reclutare un sostituto che faccia le pubbliche veci dello scrittore mascherato. Il sostituto ovviamente è Benjamin Malaussène, di professione capro espiatorio, che fi nirà vittima di un attentato finendo in ospedale in stato comatoso. Prima della brutta fine lo stesso Malaussène si distingue a un certo punto nelle funzioni di editor delle edizioni del Taglione quando, quasi per ribaltare il suo senso di colpa e liberarsi di un aspirante autore, gli rifila un suo presunto manoscritto già rifiutato da numerosi altri editori chiedendogli un parere. Si tratta in realtà di uno dei tanti manoscritti arrivati e mai restituiti. Una trama per certi versi assai simile si ritrova nell’esilarante La grande caccia dove l’umorista inglese Tom Sharpe racconta le attività spregiudicate di un’agenzia letteraria londinese, la Frensic and Futtle, che riceve da uno studio legale un manoscritto di un romanzo ad alto tasso erotico: protagonista un’anziana ottantenne e un giovane diciassettenne. Unica condizione posta dall’autore per la pubblicazione è l’anonimato. Gli agenti riescono a venderlo per due milioni di dollari a un popolare editore americano che pone però a sua volta la condizione dell’impegno personale dell’autore a promuovere il libro sui media e in un lungo tour per il Paese. Gli agenti hanno la brillante quanto strampalata idea di utilizzare come controfigura un autore desideroso di esordire nel mondo delle lettere. Il problema sorge però quando una copia del dattiloscritto arriva effettivamente dall’editore al prestanome che non era propriamente a conoscenza del contenuto del libro… L’agente riuscirà a convincerlo a partire per il tour letterario ma la commedia degli equivoci, come si potrà immaginare, è appena iniziata.
Per restare sul versante parodistico si può ricordare il personaggio di Otis, un piccolo editore inglese con un certo talento, quasi una passione, per andarsi a cacciare in situazioni difficili. In questo caso il guaio è direttamente proporzionale al nome (perfettamente onomatopeico), alla posizione sociale e all’irascibilità di uno dei suoi autori: l’altezzoso sir Bostock. In un momento di disattenzione (nella quale può capitare di leggere una sorta di inconscia volontarietà) ha infatti inserito, nelle memorie del nobile britannico, alcune riproduzioni di adorabili fanciulle, che hanno il solo difetto di presentarsi in modo piuttosto discinto. È a questo punto che entra in azione il protagonista di uno dei più ironici e riusciti romanzi di Pelham Grenville Wodehouse: Zio Dinamite, un ricco e distinto signore dalla flemma apparente che porta degli eleganti baffi grigi e tradisce lo sguardo di un profondo conoscitore della vita, un uomo sempre capace di decidere la cosa giusta al momento giusto. Ecco perché sua nipote Sally chiede aiuto proprio a lui per togliere dai pasticci suo fratello Otis, che rischia la bancarotta per un libro. Zio Fred deve dunque precipitarsi al castello di Ashenden e ricorrere a tutta la sua abilità e la sua faccia tosta per salvare il nipote e dare inizio a una serie di dialoghi e situazioni paradossali in cui l’autore conferma la sua migliore vena surreale.
 Siamo nel magico mondo di Wodehouse che con questo titolo (che ricorda nella parte della parodia del mondo editoriale un altro libro dello stesso autore sulle esilaranti Gesta di Psmith, giornalista deciso a trasformare la testata Dolci Momenti in una rivista d’assalto e di ruvida denuncia sociale), come con il ciclo di Mulliner, o con quelli di Jeeves e di Blandings, rappresenta la perfetta incarnazione della migliore tradizione dello humour britannico e di quel particolare grado di clima isolano e umidità dell’aria che l’hanno prodotto e fatto prosperare. Uno dei romanzi che meglio ha riassunto in toni sarcastici ma in fondo piuttosto “fedeli” il mondo dei libri è sicuramente Felicità® di Will Ferguson. Il protagonista è Edwin de Valu, giovane editor di una casa editrice di Manhattan, in forze al settore manualistica e self help. La sua sfida quotidiana sta nel tentare di abbassare le infinite pile di manoscritti che arrivano spontaneamente in casa editrice da ogni dove cercando un modo, il più possibile cortese, per esprimere al mittente un fermo rifiuto alla pubblicazione. È proprio navigando nel mucchio di testi più o meno improbabili (o che lui reputa tali) che un giorno s’imbatte in un poderoso dattiloscritto di un migliaio di pagine, dal titolo non particolarmente promettente: Cosa ho imparato sulla montagna. Scoraggiato dalla mole e dalla “voce” dell’autore, Edwin cestina il libro e scrive una sbrigativa lettera di rifiuto. Pochi minuti dopo in riunione scopre di dover trovare a breve un libro capace di risollevare i conti di una stagione editoriale a rischio e il bestseller desiderato diventerà naturalmente proprio quel cumulo di pagine di scarso interesse che ha appena rifiutato. Dopo una serie di vicissitudini che ben descrivono i lati più deleteri del grande mondo dell’editoria, il voluminoso manoscritto diventa “il grande libro della felicità”, il talismano per tutte le stagioni, capace di assicurare ai lettori la soluzione di ogni problema esistenziale, il superamento di ogni dipendenza dai vizi più dannosi alla salute ma anche l’assicurazione di una scorciatoia per guadagnare denaro facile e, perché no?, di dimagrire e migliorare le propria vita sessuale.
Il buzz impazza a New York e da lì all’America intera: grazie al passaparola il libro diventa, contrariamente a ogni possibile controindicazione originaria, il magico megaseller in grado di dare una svolta ai destini della casa editrice. E non solo, perché, oltre a vendere milioni di copie, l’impossibile ricetta di vita funziona talmente bene da rendere davvero il pianeta un posto più felice per tutti con il conseguente crollo della fiorente industria dei farmaci e delle tossicodipendenze, dell’alcol e delle palestre. Una parodia perfetta del confezionamento a tavolino di alcuni libri di successo, ma anche della “sacra regola dell’imprevedibilità del bestseller” che ogni editor dovrebbe ripetere come mantra quotidiano se è vero che nel 1995 almeno nove case editrici del Regno Unito, tra cui Transworld e HarperCollins, rifiutarono Harry Potter e la pietra filosofale perché troppo lungo e un po’ vecchio stile. Quanto hanno rimpianto il momento del rifiuto assistendo al successo della serie firmata da J. K. Rowling (soprattutto dopo l’adattamento cinematografi co)? Ma non è il solo rischio del mestiere: la beffa è sempre dietro l’angolo.
Nel 2007 un aspirante scrittore inglese ha tirato un brutto scherzo all’establishment dell’editoria britannica. Ha mandato a diciotto case editrici i capitoli di tre celebri opere di Jane Austen presentandoli come scritti dalla sedicente A. (Alison) Laydee (Austen si firmava con lo pseudonimo «A Lady»). Un solo editor se n’è accorto accusandolo di plagio. Gli altri hanno risposto con lettere di rifi uto di routine, qualcuno persino con un incoraggiamento a continuare sulla strada intrapresa. Henry James definiva quello dell’editor un «lavoro da macellaio», David Herbert Lawrence se la prendeva con quelli che «cercavano di modellargli il naso con una forbice». John Updike diceva che farsi editare è come «andare dal barbiere », aggiungendo però: «Odio tagliarmi i capelli». Ma è un po’ come il dentista. Diffi cile evitarlo.
Come ha scritto Stephen King in un suo testo autobiografico sul tema (On Writing), «quando scrivi un libro passi l’intera giornata a descrivere gli alberi. E quando hai finito devi fare un passo indietro e guardare alla foresta nel suo complesso». È chiaro che, a volte, non bastano gli occhi della stessa persona per fare entrambe le cose. Anche per questo occorre una figura specializzata che abbia lo sguardo sul particolare (frasi, sintassi, consecutio temporis) e sull’intero (rileggendo un romanzo da cima a fondo). Ma non solo naturalmente: per Max Porter, della rivista letteraria inglese Granta, «un editor moderno è in parte un correttore di bozze, in parte uno psicologo, e in parte un uomo di marketing. Un artigiano che lavora come un ceramista con cesello e spinte gentili». E nell’era delle grandi concentrazioni editoriali, o di quella delle nuove grandi agenzie letterarie, nonché degli autori sedotti dal selfpublishing e dal web, ma abbandonati sempre più spesso a se stessi, è difficile pensare che il mondo dei libri possa fare a meno di una simile figura professionale. Nella realtà o almeno nelle pagine dei romanzi.