(DA PRETEXT)
L’editor è quella
strana figura professionale che
non scrive libri (ci pensano gli autori), non li stampa (c’è il tipografo), non
li vende (è compito del libraio), e non li distribuisce nemmeno. Il suo compito
si limita più o meno a tutto il resto (copyright di Valentino Bompiani): va a
caccia di autori, seleziona un testo da pubblicare, ne propone le modifiche
necessarie e accompagna ogni fase della successiva gravidanza letteraria fino all’approdo del libro sul
mercato. Per qualcuno gli editor sono scrittori mancati ma è una definizione in
fondo banale e un po’ troppo simile a quella usata per i giornalisti e poi
bisognerebbe almeno ricordare il caso di editor-scrittori di successo come Elio
Vittorini, Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Luciano Bianciardi che smentisce
con una certa efficacia il trito luogo comune.
La verità è che sono semplicemente
due mestieri diversi; più interessante notare come l’editor sia stato al di là
del suo volere anche un ottimo personaggio da romanzo, forse grazie alle
numerose invidie (non del tutto giustificate) che i gatekeepers del mondo dei libri tendono ad
attirarsi, forse per il fascino (tutto presunto) del mondo letterario in cui
vivono e sicuramente per l’ambigua natura del ruolo che ricoprono: mediatori,
quali sono, tra la creatività artistica dell’autore e le regole del mercato che
ogni sana impresa dovrebbe tentare di mettere in pratica. La comparsa
dell’editor sulla pagina scritta, come protagonista o comprimario romanzesco,
avviene in realtà relativamente tardi. E il motivo è molto semplice: la figura in questione è un’invenzione
che risale agli inizi del Novecento e riguarda inizialmente soprattutto i Paesi
anglosassoni; i primi editor tra l’altro si sono affermati nei giornali (questo
in parte spiega la comune definizione spregiativa di cui si diceva
inizialmente) dove c’era la necessità di correggere gli articoli per metterli
in pagina ma anche di capire quali pezzi pubblicare per andare incontro nel
modo migliore ai gusti dei lettori. Si dice che l’editor di maggior successo
della storia sia stato Mosè con le tavole della legge (Dio l’“autore”) ma, al
di là delle battute, prima del secolo scorso il campo era occupato più che
altro da stampatori più o meno illuminati o piccoli e grandi tipografi, da
Manuzio a Bodoni, e l’autore aveva a che fare direttamente con loro o, più
tardi, con chi conduceva la casa editrice, l’imprenditore. L’editor, si diceva,
resta in ogni caso un personaggio ambiguo: lavora per l’editore, ma
contemporaneamente per i suoi autori di
cui diventa spesso sodale (chi lo impiega lo stima e lo teme allo stesso tempo)
e deve intercettare per tempo tendenze e gusti dei lettori anche quando questi
vanno in direzioni che non corrispondono al suo gusto personale. La storia è
ricca di editori che hanno avuto tra l’altro un “fiuto eccessivo” anticipando
buone idee e tendenze che avrebbero potuto essere apprezzate solo più tardi: Siddharta di Herman Hesse, quando fu
pubblicato nel 1922 non ebbe la circolazione che avrebbe conosciuto in seguito. I Malavoglia di Giovanni Verga fu un fiasco alla prima apparizione ma
divenne poi un classico. Stessa sorte per Moby
Dick di Herman Melville, che
portò all’autore solo un successo postumo.
I primi esemplari personaggi da
romanzo sono dunque gli editor in carne e ossa, entrati nella piccola mitologia
della miglior letteratura: da Maxwell Perkins, editor di Francis Scott
Fitzgerald per Scribner (non fosse stato per lui Il grande Gatsby porterebbe un altro titolo, Trimalchioo in West Egg) a Saxe Commins di
Random House per alcune opere di Ernest Hemingway, da William Shawn del New Yorker per J. D. Salinger a Robert
Gottlieb per John le Carré e Toni Morrison, da Diana Athill per V. S. Naipaul e
Norman Mailer a Ezra Pound per La
Terra desolata di Thomas
Stearns Eliot (per non parlare del ruolo di Gordon Lish per Raymond Carver e di
Tay Hohoff nella “ricostruzione” di un grande bestseller internazionale come Il buio oltre la siepe di Harper Lee, emersa con
particolare evidenza con la pubblicazione dell’inedito Go Set a Watchman, che porta del resto
lo stesso titolo con cui l’autrice americana aveva presentato il manoscritto
originario del suo capolavoro).
Per arrivare, più recentemente, a
Jonathan Galassi di Farrar, Straus and Giroux, editore di Jonathan Franzen, che
ha raccontato mirabilmente una fase di passaggio dell’età dell’oro
dell’editoria nordamericana in un romanzo di recente pubblicazione. Il
protagonista è Paul Dukach, editor della Purcell & Stern, nome fittizio di una delle poche case
editrici indipendenti di New York, per il giovane una grande scuola di mestiere
e di sopravvivenza tra grandi gruppi editoriali, agenti famelici e competitor pronti a tutto per accaparrarsi l’autore
di grido e il nuovo potenziale bestseller. Tra autori permalosi, caotiche fiere del libro in Europa e un duro
quanto diplomatico lavoro sui manoscritti, Paul non dimentica di coltivare la
sua passione per la poesia e in particolare per la poetessa Ida Perkins, che
segnerà la sua vita. Paul sembra destinato a succedere al vecchio Homer Stern,
lupo di mare dell’editoria ma è in qualche modo attratto anche dalla figura dell’anziano editore
concorrente, Sterling Wainwright della Impetus Editions, vera e propria
autorità culturale e paladino della Letteratura di qualità, simbolo di un mondo
dei libri che pare destinato al tramonto. Tra Homer e Sterling corre
inevitabilmente una grande rivalità, e non solo perché i due incarnano modi e
visioni opposti, ma perché da sempre si contendono entrambi proprio Ida
Perkins, la stessa affascinante poetessa che Paul fa di tutto per pubblicare.
Quando il protagonista riuscirà finalmente
a incontrare La Musa (questo il titolo del libro) a
Venezia, verrà a conoscenza di una verità che potrebbe travolgere molte
certezze. Chi si nasconde dietro ai personaggi in questione? Quanta di questa
storia si nutre dell’autobiografia stessa dell’autore, classe 1949, presidente
della prestigiosa Farrar, Straus and Giroux e scopritore di Jeffrey Eugenides,
Jamaica Kincaid, Scott Turow o Michael Cunningham, nonché poeta egli stesso e
traduttore in inglese di Montale e Leopardi? Quanto basta per calare
perfettamente il lettore nella magica atmosfera di un mondo in definitiva
trasformazione e fargli vivere sulla pelle la trama e le emozioni di una storia
letteraria e di una passione professionale di grande fascino.
A margine della pubblicazione del libro, Galassi si è
soffermato sulle storture di una produzione editoriale che tende oggi a sostituire
i gusti personali dell’editor con le virtù delle funzioni algoritmiche di
Amazon ed è difficile dargli torto. Cercando in Rete potrete imbattervi in un
autore di 200.000 libri. Si chiama Philip Parker è docente di Management
Science nonché inventore di un algoritmo che consente l’aggregazione di testi
con un certo minimo comun denominatore. I suoi non sono veri e propri libri ma
raccolte di dati e testi su un determinato argomento, dei compendi che
utilizzano materiali liberi da copyright e rintracciabili in prevalenza sulla
Rete La storia raccontata da Galassi richiama alla mente un libro pubblicato
qualche anno fa. Martin Bauman, oltre che il
protagonista dell’omonimo libro di David Leavitt, è l’alias dietro cui si cela
l’autore stesso. Quest’ultimo, nato a Pittsburgh e cresciuto a Palo Alto in
California si trasferisce sull’East Coast, si laurea in letteratura alla Yale
University, inizia a lavorare per la celebre casa editrice Viking di New York e
si afferma nel 1984, a soli ventitré anni, con Ballo di famiglia, ormai
divenuto un classico della fiction
contemporanea. Quanto al primo, Martin Bauman, all’inizio degli anni Ottanta,
non ancora ventenne, viene ammesso in un prestigioso college americano per
seguire i corsi del leggendario editor Stanley Flint, l’uomo capace di troncare
il sogno di un aspirante scrittore ma anche di accompagnarlo nell’empireo del
successo. E si trasforma ben presto in protagonista del fervente mondo
letterario newyorkese. Come si vede, le vite dei due, più che procedere parallele, finiscono in realtà per incrociarsi
assai spesso e non solo nella descrizione della brillante carriera di scrittori
di entrambi, ma anche nel contrasto tra questa corsa ambiziosa al successo
pubblico e la fragile vita privata dei due, dove Martin Leavitt e David Bauman
(o viceversa) si confrontano con l’ombra del padre, professore alla Stanford
Business School, in un caso, e con quella del padre letterario Stanley Flint,
nel secondo: in ogni modo uno scomodo ideale di perfezione con cui occorre fare
i conti per affermare la propria identità. Soprattutto se alle crisi
sentimentali si somma la difficile affermazione dell’omosessualità del
protagonista.
Ancora più reale è il personaggio
principale de L’editore,
lavoro molto precedente di Nanni Balestrini, dove un giovane regista, un
professore universitario, un libraio e una giornalista si ritrovano per
studiare come mettere in scena la straordinaria e breve parabola di Giangiacomo
Feltrinelli sullo sfondo delle lotte sociali degli anni Settanta, tra
ideali rivoluzionari e reali deviazioni antidemocratiche degli apparati dello
Stato. Chi ha lavorato in Feltrinelli negli anni Cinquanta traendone
ispirazione per i suoi libri è, com’è noto, Luciano Bianciardi che, ne Il lavoro culturale, narra
l’ironica storia di un intellettuale di provincia, convinto delle virtù
dell’impegno culturale e del sapere nell’ottica di una responsabilità civile e
politica destinata a incidere sulla realtà. È il ritratto di un’intera
generazione di intellettuali di sinistra, ma anche delle loro illusioni: il
trasferimento a Milano dalla Toscana, vissuto inizialmente come possibilità di
reagire alle sue frustrazioni, si rivela per i protagonista un
fallimento. La vita nella metropoli e il ruolo culturale tanto ricercato finiscono per deluderlo e il discorso
intellettuale iniziato con la Resistenza appare definitivamente tramontato.
Un maestro di libri sui libri e meta
romanzi è sicuramente il francese Daniel Pennac. Nel suo La prosivendola racconta il lancio di un anonimo
autore di bestseller internazionali sul mondo della finanza da parte di regina Zabo,
direttrice della casa editrice Taglione che decide di reclutare un sostituto
che faccia le pubbliche veci dello scrittore mascherato. Il sostituto
ovviamente è Benjamin Malaussène, di professione capro espiatorio, che fi nirà
vittima di un attentato finendo
in ospedale in stato comatoso. Prima della brutta fine lo stesso Malaussène si distingue
a un certo punto nelle funzioni di editor delle edizioni del Taglione quando,
quasi per ribaltare il suo senso di colpa e liberarsi di un aspirante autore,
gli rifila un suo presunto manoscritto già rifiutato da numerosi altri editori
chiedendogli un parere. Si tratta in realtà di uno dei tanti manoscritti
arrivati e mai restituiti. Una trama per certi versi assai simile si ritrova
nell’esilarante La grande
caccia dove l’umorista
inglese Tom Sharpe racconta le attività spregiudicate di un’agenzia letteraria
londinese, la Frensic and Futtle, che riceve da uno studio legale un
manoscritto di un romanzo ad alto tasso erotico: protagonista un’anziana
ottantenne e un giovane diciassettenne. Unica condizione posta dall’autore per
la pubblicazione è l’anonimato. Gli agenti riescono a venderlo per due milioni
di dollari a un popolare editore americano che pone però a sua volta la
condizione dell’impegno personale dell’autore a promuovere il libro sui media e
in un lungo tour per il Paese. Gli agenti hanno la brillante quanto strampalata
idea di utilizzare come controfigura un autore desideroso di esordire nel mondo
delle lettere. Il problema sorge però quando una copia del dattiloscritto
arriva effettivamente dall’editore al prestanome che non era propriamente a
conoscenza del contenuto del libro… L’agente riuscirà a convincerlo a partire
per il tour letterario ma la commedia degli equivoci, come si potrà immaginare,
è appena iniziata.
Per restare sul versante parodistico
si può ricordare il personaggio di Otis, un piccolo editore inglese con un
certo talento, quasi una passione, per andarsi a cacciare in situazioni difficili.
In questo caso il guaio è direttamente proporzionale al nome (perfettamente
onomatopeico), alla posizione sociale e all’irascibilità di uno dei suoi
autori: l’altezzoso sir Bostock. In un momento di disattenzione (nella quale
può capitare di leggere una sorta di inconscia volontarietà) ha infatti
inserito, nelle memorie del nobile britannico, alcune riproduzioni di adorabili
fanciulle, che hanno il solo difetto di presentarsi in modo piuttosto discinto.
È a questo punto che entra in azione il protagonista di uno dei più ironici e
riusciti romanzi di Pelham Grenville Wodehouse: Zio Dinamite, un ricco e
distinto signore dalla flemma
apparente che porta degli eleganti baffi grigi
e tradisce lo sguardo di un profondo conoscitore della vita, un uomo sempre
capace di decidere la cosa giusta al momento giusto. Ecco perché sua nipote
Sally chiede aiuto proprio a lui per togliere dai pasticci suo fratello Otis,
che rischia la bancarotta per un libro. Zio Fred deve dunque precipitarsi al
castello di Ashenden e ricorrere a tutta la sua abilità e la sua faccia tosta
per salvare il nipote e dare inizio a una serie di dialoghi e situazioni
paradossali in cui l’autore conferma la sua migliore vena surreale.
Siamo nel magico mondo di
Wodehouse che con questo titolo (che ricorda nella parte della parodia del
mondo editoriale un altro libro dello stesso autore sulle esilaranti Gesta di Psmith, giornalista
deciso a trasformare la testata Dolci
Momenti in una rivista
d’assalto e di ruvida denuncia sociale), come con il ciclo di Mulliner, o con
quelli di Jeeves e di Blandings, rappresenta la perfetta incarnazione della
migliore tradizione dello humour britannico e di quel particolare grado di clima
isolano e umidità dell’aria che l’hanno prodotto e fatto prosperare. Uno dei
romanzi che meglio ha riassunto in toni sarcastici ma in fondo piuttosto
“fedeli” il mondo dei libri è sicuramente Felicità® di Will Ferguson. Il protagonista
è Edwin de Valu, giovane editor di una casa editrice di Manhattan, in forze al
settore manualistica e self
help. La sua sfida quotidiana sta nel tentare di abbassare le infinite pile
di manoscritti che arrivano spontaneamente in casa editrice da ogni dove
cercando un modo, il più possibile cortese, per esprimere al mittente un fermo
rifiuto alla pubblicazione. È proprio navigando nel mucchio di testi più o meno
improbabili (o che lui reputa tali) che un giorno s’imbatte in un poderoso
dattiloscritto di un migliaio di pagine, dal titolo non particolarmente
promettente: Cosa ho imparato
sulla montagna. Scoraggiato dalla mole e dalla “voce” dell’autore, Edwin
cestina il libro e scrive una sbrigativa lettera di rifiuto. Pochi minuti dopo
in riunione scopre di dover trovare a breve un libro capace di risollevare i
conti di una stagione editoriale a rischio e il bestseller desiderato diventerà
naturalmente proprio quel cumulo di pagine di scarso interesse che ha appena rifiutato.
Dopo una serie di vicissitudini che ben descrivono i lati più deleteri del
grande mondo dell’editoria, il voluminoso manoscritto diventa “il grande libro
della felicità”, il talismano per tutte le stagioni, capace di assicurare ai
lettori la soluzione di ogni problema esistenziale, il superamento di ogni dipendenza
dai vizi più dannosi alla salute ma anche l’assicurazione di una scorciatoia
per guadagnare denaro facile e, perché no?, di dimagrire e migliorare le
propria vita sessuale.
Il buzz impazza a New York e da lì
all’America intera: grazie al passaparola il libro diventa, contrariamente a
ogni possibile controindicazione originaria, il magico megaseller in grado di
dare una svolta ai destini della casa editrice. E non solo, perché, oltre a
vendere milioni di copie, l’impossibile ricetta di vita funziona talmente bene
da rendere davvero il pianeta un posto più felice per tutti con il conseguente
crollo della fiorente industria
dei farmaci e delle tossicodipendenze, dell’alcol e delle palestre. Una parodia
perfetta del confezionamento a tavolino di alcuni libri di successo, ma anche
della “sacra regola dell’imprevedibilità del bestseller” che ogni editor
dovrebbe ripetere come mantra quotidiano se è vero che nel 1995 almeno nove
case editrici del Regno Unito, tra cui Transworld e HarperCollins, rifiutarono Harry Potter e la pietra filosofale perché troppo lungo e un po’ vecchio stile. Quanto
hanno rimpianto il momento del rifiuto assistendo al successo della serie firmata da J. K. Rowling (soprattutto
dopo l’adattamento cinematografi co)?
Ma non è il solo rischio del mestiere: la beffa è sempre dietro l’angolo.
Nel 2007 un aspirante scrittore
inglese ha tirato un brutto scherzo all’establishment dell’editoria britannica.
Ha mandato a diciotto case editrici i capitoli di tre celebri opere di Jane
Austen presentandoli come scritti dalla sedicente A. (Alison) Laydee (Austen si firmava con lo pseudonimo «A Lady»).
Un solo editor se n’è accorto accusandolo di plagio. Gli altri hanno risposto
con lettere di rifi uto di
routine, qualcuno persino con un incoraggiamento a continuare sulla strada
intrapresa. Henry James definiva quello dell’editor un «lavoro da macellaio»,
David Herbert Lawrence se la prendeva con quelli che «cercavano di modellargli
il naso con una forbice». John Updike diceva che farsi editare è come «andare
dal barbiere », aggiungendo però: «Odio tagliarmi i capelli». Ma è un po’ come
il dentista. Diffi cile evitarlo.
Come ha scritto Stephen King in un
suo testo autobiografico sul tema (On Writing), «quando scrivi un libro
passi l’intera giornata a descrivere gli alberi. E quando hai finito devi fare un passo indietro e
guardare alla foresta nel suo complesso». È chiaro che, a volte, non bastano
gli occhi della stessa persona per fare entrambe le cose. Anche per questo
occorre una figura specializzata
che abbia lo sguardo sul particolare (frasi, sintassi, consecutio temporis) e
sull’intero (rileggendo un romanzo da cima a fondo). Ma non solo naturalmente:
per Max Porter, della rivista letteraria inglese Granta, «un editor moderno è in
parte un correttore di bozze, in parte uno psicologo, e in parte un uomo di
marketing. Un artigiano che lavora come un ceramista con cesello e spinte
gentili». E nell’era delle grandi concentrazioni editoriali, o di quella delle
nuove grandi agenzie letterarie, nonché degli autori sedotti dal selfpublishing e dal web, ma abbandonati sempre
più spesso a se stessi, è difficile pensare che il mondo dei libri possa fare a
meno di una simile figura
professionale. Nella realtà o almeno nelle pagine dei romanzi.