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8.25.2015

NARRATE LA VOSTRA STORIA



(DA PRETEXT)

“Ciascuno dovrebbe tenere il diario di qualcun altro” diceva Oscar Wilde. Anziché il proprio, avrebbe potuto aggiungere, perché nella maggior parte dei casi scrivere di se stessi con distacco e rendere la propria vita interessante e “leggibile” agli occhi del prossimo non sembra essere un mestiere per tutti. Eppure il genere biografico è sempre stato frequentato in entrambe le versioni: da un lato il racconto di se stessi o di un’esperienza vissuta sulla propria pelle (come nell’Anabasi di Senofonte per tornare molto indietro nel tempo con un esempio illustre) e dall’altro il ritratto di figure più o meno celebri redatto da uno scrittore terzo (anche qui non mancano celebri archetipi, dalla storia di Gesù nel Vangelo in avanti). Tra le due opzioni, il mercato dei libri ha operato nel tempo una selezione naturale: il genere di maggior successo è risultato innegabilmente l’autobiografia “di parte”, ben più della ricostruzione della vita di Tizio, scritta da Caio ad uso di Sempronio. Per intenderci, con un caso recente, tra il memoir Io sono Malala (edito da Garzanti), e firmato dalla protagonista pakistana Yousazfai, e Storia di Malala (Mondadori) ad opera di Viviana Mazza, il campione d’incassi è stato il primo: il pubblico sembra cioè preferire la voce calda e diretta del protagonista alla pur più attendibile - si presume - ricostruzione ad opera di terzi.
Va  aggiunto però che, soprattutto nel caso dei cosiddetti celebrity book, la storia è sì di chi sigla il libro e narra in prima persona ma chi scrive materialmente la storia è spesso un ghostwriter  di professione, a volte anonimo, altre dichiarato e in ogni caso per lo più scelto e remunerato dalla casa editrice. Prendiamo il caso di Open di Andre Agassi, scritto dichiaratamente dal famoso tennista col contributo sostanziale del premio Pulitzer americano J.R. Moehringer, che ha registrato nel giro di un paio d’anni un successo andato ben al di là delle più rosee previsioni (soprattutto di quelle basate sul pubblico dei fan del tennista, da tempo peraltro "fuori dai giochi" del grande Slam). Il record di vendite, in questo caso, è stato senz’altro frutto del passaparola innescato da una promozione speciale, quella dei tweet di “sponsor” d’eccezione come Lorenzo Jovanotti, Valentino Rossi e Daria Bignardi, ma anche dell’intensità emotiva della storia e della sua qualità narrativa (della scrittura di Moehringer insomma), che ha portato allo “sdoganamento” di un libro - altrimenti incasellabile automaticamente nella categoria “varia" e nel sottogenere spesso meno promettente della “biografia sportiva"- da parte di due recensori come Alessandro Baricco e Alessandro Piperno, che ne hanno scritto rispettivamente su “la Repubblica” e il “Corriere della Sera”.
Ma cosa attira tanto il lettore sembra essere la confessione intima, lo scavo interiore dell'autore, che nel genere narrativo in questione si è affermato storicamente a partire dalle Confessioni di Sant'Agostino, per poi trovare nuovi esempi nella Storia delle mie disgrazie di Abelardo, nei Ricordi di Guicciardini, negli scritti di Benvenuto Cellini, nelle Confessioni di Jean-Jacques Rousseau, nelle Memorie dell’oltretomba di François-René de Chateaubriand, nei diari di Samuel Pepys o di Giacomo Casanova, e ancora in Stendhal (Vita di Henri Brulard), Henry David Thoreau (Walden), Oscar Wilde (De Profundis), George Orwell (Omaggio alla Catalogna), T. E. Lawrence (I sette pilastri della saggezza), Ernest Hemingway (Festa mobile), Vladimir Nabokov (Parla, ricordo), Varlam Šalamov (I racconti di Kolyma) e naturalmente in moltissimi altri. Fino alla variante delle “autobiografie disegnate”, o “graphic novel” di Art Spiegelman (Maus) e Marjane Satrapi (Persepolis
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Come definire invece classici come le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar? Siamo sicuramente di fronte a un romanzo, è vero, ma di un romanzo che racconta l'imperatore romano in chiave autobiografica forse meglio di ogni saggio scritto sul personaggio. La verità è che la linea di separazione tra la biografia e la fiction a volte è piuttosto ambigua. Anche volutamente. A sangue freddo di Truman Capote, capostipite del New Journalism, può essere considerato tanto il profilo biografico di un condannato a morte in forma narrativa quanto un romanzo scritto con la precisione e la documentazione di una biografia. Perché la formula della “storia vera scritta come un romanzo” è sicuramente quella che funziona di più in termini statistici (da Gomorra di Roberto Saviano al Cacciatore di aquiloni di Kahled Hosseini). La storia autobiografica di Nicolai Lilin, autore di Educazione Siberiana molto probabilmente non avrebbe avuto sul pubblico lo stesso impatto se fosse stata presentata semplicemente come un’opera di fiction, perché il lettore è spesso attratto da storie autenticamente vissute e gli editori lo sanno (una regola che può essere tranquillamente ripetuta per il cinema).
Basterebbe pensare all'interesse per i falsi diari di Hitler e Mussolini, costruiti a tavolino e spacciati per veri (con annessi e ripetuti scandali) o a casi come quello del bestseller Tre tazze di tè (Rizzoli) del campione della cooperazione in Pakistan Greg Mortenson, che un'inchiesta della CBS ha rivelato aver raccontato qualche storia di troppo, scoprendo che delle scuole che l’autore sosteneva di aver costruito solo poche erano in funzione e addirittura qualcuna non esisteva del tutto. A giudicare dalla fortuna del libro, la verità non paga.
Ed è in effetti quanto accade anche nel caso delle cosiddette biografie non autorizzate, scritte da autori professionisti che promettono inedite rivelazioni e verità nascoste: se si esclude il caso di qualche “controstoria politica” - come quelle su Silvio Berlusconi che sono state per numero quasi una categoria editoriale a parte -, le “odiografie” dei personaggi celebri (del mondo dello sport e dello spettacolo, ecc.) registrano quasi sempre minor interesse del pubblico rispetto alle “autofiction” firmate dai protagonisti stessi e in genere più inevitabilmente più indulgenti verso se stessi e meno “interessate” alla ricostruzione obiettiva. Non è un caso quindi che nel tempo abbiano perso forza anche le biografie storiche di uomini e donne del passato che pure hanno nutrito a lungo un genere letterario di grande tradizione, iniziato anticamente con testi come Le vite parallele di Plutarco o le Vite dei Cesari di Svetonio, proseguito in epoca medioevale con le agiografie (vite e miracoli di santi e martiri), poi con le Vite degli artisti del Vasari o degli Eminenti vittoriani di Lytton Strachey, per arrivare ai ritratti romanzati di Stefan Zweig e al rigore d'analisi e ricerca di opere come il Federico II imperatore di Ernst Kantorowicz (Garzanti) o il monumentale Hitler di Ian Kershaw (Bompiani). Quasi ogni casa editrice aveva un tempo una collana dedicate ai profili di tiranni, regine, generali, monaci e affaristi, più o meno amati o controversi: è stato il caso dell'ormai scomparsa Dall'Oglio, di Garzanti o della serie delle Scie di Mondadori. Ma, se l'offerta nel tempo si è fatta sterminata, la domanda è invece drammaticamente diminuita (con straordinarie eccezioni recenti come la biografia autorizzata di Steve Jobs di Walter Isaacson), senza dubbio grazie alla complicità della velocità e gratuità di consultazione del web e di sue alcune fondamentali risorse del sapere enciclopedico come Wikipedia. Tentativi di rilancio in questi anni non sono mancati: Castelvecchi, per esempio, ha lanciato una prolifica nuova collana di classici “Ritratti”, dal Marco Aurelio di Ernest Renan a Madame de Pompadour dei fratelli Goncourt mentre le edizioni del becco Giallo hanno alimentato una serie di biografie a fumetti che racconta personaggi come Don Milani, Fabrizio De André e Mauro Rostagno; ma la formula non ha certo più lo stesso seguito d’un tempo. Se in passato si potevano accusare gli storici di mestiere di voler conoscere soltanto le "gesta dei re" (nel segno del “culto degli eroi” secondo la teoria ottocentesca “del grande uomo” di Thomas Carlyle), oggi il problema potrebbe risultare l’inverso: grande attenzione ai mutamenti di lunga durata (climatici per esempio), alla storia globale del pianeta e dei suoi popoli più che ai singoli ed effimeri protagonisti delle vicende delle “solite” lande d’Europa. Così che, accanto alle biografie tradizionali dei personaggi più noti, del passato recente o dell’attualità, si sono affacciati sempre più spesso, nel panorama della ricerca e sul mercato dei libri, anche le vite di uomini e donne ai più sconosciuti, come il Menocchio del magistrale Il formaggio e i vermi (Einaudi) di Carlo Ginzburg, un mugnaio processato per eresia nell'Italia del 1500, o Il mondo ritrovato di Louis-François Pinagot dello storico francese Alain Corbin (pubblicato da Garzanti), un fabbricante di zoccoli nato nel 1798 in un piccolo villaggio della Normandia scivolato silenziosamente nell’oblio del passato finché uno storico non ne ha trovato il nome in un archivio anagrafico e ha cercato di capire chi fosse e che cosa potesse pensare uno dei milioni di esseri umani che ci hanno preceduto nel corso della storia senza lasciare tracce.
Quanti conoscevano del resto il postcomunista Eduard Limonov prima che Emmanuel Carrère ne raccontasse le ripugnanti imprese e Adelphi lo traducesse in Italia con un grande riscontro di pubblico? E perché l'affermato scrittore francese, autore di Vite che non sono la mia, ha dedicato un libro proprio a quella controversa figura? Perché più in generale si scrivono tante biografie? Secondo Alberto Savinio, autore del parodistico Narrate o uomini la vostra storia, la ragione è che  “la biografia per noi è un gioco segreto... Siamo scortati da qualche tempo a questa parte da un gruppo di nuovi amici costruiti da noi di tutto punto, fra i quali distinguiamo Teofrasto Bombasto di Hohenheim detto Paracelso, e Michele di Nostradamo, e Isadora Duncan, e abbiamo buone ragioni di crederci simili a Carlomagno in mezzo ai suoi Paladini, altrettanto ben difesi e onorati». La biografia era per lui l’occasione ideale per mettersi nei panni di altri e farsi specchio, le sue vite di uomini illustri sono cioè altrettante autobiografie, come nel caso di Michail Bulgakov che, scrivendo la Vita del signor de Molière, ritrovò nell’“antico collega” tanto le affinità creative quanto comuni difficoltà nei rapporti col potere. Raccontare la nostra vita, direttamente o attraverso quelle degli altri, è in fondo un modo di esorcizzare il timore della fine, una forma di terapia psicologica e forse un tentativo di prolungare indefinitamente le nostre esistenze terrene. E l'intima confessione messa in piazza attraverso i blog o i social network di oggi sembrerebbe confermarlo, portando il genere biografico verso forme inedite e nuove frontiere.