(DA PRETEXT)
“Ciascuno dovrebbe tenere il diario di qualcun altro” diceva Oscar Wilde. Anziché il proprio, avrebbe potuto aggiungere, perché nella maggior parte dei casi scrivere di se stessi con distacco e rendere la propria vita interessante e “leggibile” agli occhi del prossimo non sembra essere un mestiere per tutti. Eppure il genere biografico è sempre stato frequentato in entrambe le versioni: da un lato il racconto di se stessi o di un’esperienza vissuta sulla propria pelle (come nell’Anabasi di Senofonte per tornare molto indietro nel tempo con un esempio illustre) e dall’altro il ritratto di figure più o meno celebri redatto da uno scrittore terzo (anche qui non mancano celebri archetipi, dalla storia di Gesù nel Vangelo in avanti). Tra le due opzioni, il mercato dei libri ha operato nel tempo una selezione naturale: il genere di maggior successo è risultato innegabilmente l’autobiografia “di parte”, ben più della ricostruzione della vita di Tizio, scritta da Caio ad uso di Sempronio. Per intenderci, con un caso recente, tra il memoir Io sono Malala (edito da Garzanti), e firmato dalla protagonista pakistana Yousazfai, e Storia di Malala (Mondadori) ad opera di Viviana Mazza, il campione d’incassi è stato il primo: il pubblico sembra cioè preferire la voce calda e diretta del protagonista alla pur più attendibile - si presume - ricostruzione ad opera di terzi.
“Ciascuno dovrebbe tenere il diario di qualcun altro” diceva Oscar Wilde. Anziché il proprio, avrebbe potuto aggiungere, perché nella maggior parte dei casi scrivere di se stessi con distacco e rendere la propria vita interessante e “leggibile” agli occhi del prossimo non sembra essere un mestiere per tutti. Eppure il genere biografico è sempre stato frequentato in entrambe le versioni: da un lato il racconto di se stessi o di un’esperienza vissuta sulla propria pelle (come nell’Anabasi di Senofonte per tornare molto indietro nel tempo con un esempio illustre) e dall’altro il ritratto di figure più o meno celebri redatto da uno scrittore terzo (anche qui non mancano celebri archetipi, dalla storia di Gesù nel Vangelo in avanti). Tra le due opzioni, il mercato dei libri ha operato nel tempo una selezione naturale: il genere di maggior successo è risultato innegabilmente l’autobiografia “di parte”, ben più della ricostruzione della vita di Tizio, scritta da Caio ad uso di Sempronio. Per intenderci, con un caso recente, tra il memoir Io sono Malala (edito da Garzanti), e firmato dalla protagonista pakistana Yousazfai, e Storia di Malala (Mondadori) ad opera di Viviana Mazza, il campione d’incassi è stato il primo: il pubblico sembra cioè preferire la voce calda e diretta del protagonista alla pur più attendibile - si presume - ricostruzione ad opera di terzi.
Va aggiunto però che,
soprattutto nel caso dei cosiddetti celebrity
book, la storia è sì di chi sigla il libro e narra in prima persona ma chi
scrive materialmente la storia è spesso un ghostwriter di professione, a
volte anonimo, altre dichiarato e in ogni caso per lo più scelto e remunerato
dalla casa editrice. Prendiamo il caso di Open di Andre Agassi, scritto
dichiaratamente dal famoso tennista col contributo sostanziale del premio
Pulitzer americano J.R. Moehringer, che ha registrato nel giro di un paio
d’anni un successo andato ben al di là delle più rosee previsioni (soprattutto
di quelle basate sul pubblico dei fan del tennista, da tempo peraltro
"fuori dai giochi" del grande Slam). Il record di vendite, in questo
caso, è stato senz’altro frutto del passaparola innescato da una promozione
speciale, quella dei tweet di “sponsor” d’eccezione come Lorenzo Jovanotti,
Valentino Rossi e Daria Bignardi, ma anche dell’intensità emotiva della storia
e della sua qualità narrativa (della scrittura di Moehringer insomma), che ha
portato allo “sdoganamento” di un libro - altrimenti incasellabile
automaticamente nella categoria “varia" e nel sottogenere spesso meno
promettente della “biografia sportiva"- da parte di due recensori come
Alessandro Baricco e Alessandro Piperno, che ne hanno scritto rispettivamente
su “la Repubblica” e il “Corriere della Sera”.
Ma cosa attira
tanto il lettore sembra essere la confessione intima, lo scavo interiore
dell'autore, che nel genere narrativo in questione si è affermato storicamente
a partire dalle Confessioni di Sant'Agostino, per poi trovare
nuovi esempi nella Storia
delle mie disgrazie di
Abelardo, nei Ricordi di Guicciardini, negli scritti di
Benvenuto Cellini, nelle Confessioni di Jean-Jacques Rousseau, nelle Memorie dell’oltretomba di François-René de Chateaubriand,
nei diari di Samuel Pepys o di Giacomo Casanova, e ancora in Stendhal (Vita
di Henri Brulard), Henry David Thoreau (Walden), Oscar
Wilde (De Profundis), George Orwell (Omaggio alla Catalogna), T.
E. Lawrence (I sette pilastri della saggezza), Ernest Hemingway (Festa
mobile), Vladimir Nabokov (Parla, ricordo), Varlam Šalamov (I racconti di Kolyma) e
naturalmente in moltissimi altri. Fino alla variante delle “autobiografie disegnate”, o “graphic novel” di Art Spiegelman (Maus)
e Marjane Satrapi (Persepolis)
(....)
Come definire
invece classici come le Memorie
di Adriano di Marguerite
Yourcenar? Siamo sicuramente di fronte a un romanzo, è vero, ma di un romanzo
che racconta l'imperatore romano in chiave autobiografica forse meglio di ogni
saggio scritto sul personaggio. La verità è che la linea di separazione tra la
biografia e la fiction a volte è piuttosto ambigua. Anche volutamente. A
sangue freddo di Truman
Capote, capostipite del New Journalism, può essere considerato tanto il profilo
biografico di un condannato a morte in forma narrativa quanto un romanzo
scritto con la precisione e la documentazione di una biografia. Perché la
formula della “storia vera scritta come un romanzo” è sicuramente quella che
funziona di più in termini statistici (da Gomorra di Roberto Saviano al Cacciatore
di aquiloni di Kahled
Hosseini). La storia autobiografica di Nicolai Lilin, autore di Educazione
Siberiana molto probabilmente
non avrebbe avuto sul pubblico lo stesso impatto se fosse stata presentata
semplicemente come un’opera di fiction, perché il lettore è spesso attratto da
storie autenticamente vissute e gli editori lo sanno (una regola che può essere
tranquillamente ripetuta per il cinema).
Basterebbe pensare all'interesse per
i falsi diari di Hitler e Mussolini, costruiti a tavolino e spacciati per veri
(con annessi e ripetuti scandali) o a casi come quello del bestseller Tre
tazze di tè (Rizzoli) del campione della cooperazione in Pakistan Greg
Mortenson, che un'inchiesta della CBS ha rivelato aver raccontato qualche
storia di troppo, scoprendo che delle scuole che l’autore sosteneva di aver
costruito solo poche erano in funzione e addirittura qualcuna non esisteva del
tutto. A giudicare dalla fortuna del libro, la verità non paga.
Ed è in effetti quanto accade anche
nel caso delle cosiddette biografie non autorizzate, scritte da autori
professionisti che promettono inedite rivelazioni e verità nascoste: se si
esclude il caso di qualche “controstoria politica” - come quelle su Silvio
Berlusconi che sono state per numero quasi una categoria editoriale a parte -,
le “odiografie” dei personaggi celebri (del mondo dello sport e dello
spettacolo, ecc.) registrano quasi sempre minor interesse del pubblico rispetto
alle “autofiction” firmate dai protagonisti stessi e in genere più
inevitabilmente più indulgenti verso se stessi e meno “interessate” alla
ricostruzione obiettiva. Non è un caso quindi che nel tempo abbiano perso forza
anche le biografie storiche di uomini e donne del passato che pure hanno
nutrito a lungo un genere letterario di grande tradizione, iniziato anticamente
con testi come Le vite
parallele di Plutarco o le Vite dei Cesari di Svetonio, proseguito in epoca
medioevale con le agiografie (vite e miracoli di santi e martiri), poi con le Vite degli artisti del Vasari o degli Eminenti vittoriani di Lytton Strachey, per arrivare ai
ritratti romanzati di Stefan Zweig e al rigore d'analisi e ricerca di opere
come il Federico II imperatore di Ernst Kantorowicz (Garzanti) o il
monumentale Hitler di Ian Kershaw (Bompiani). Quasi
ogni casa editrice aveva un tempo una collana dedicate ai profili di tiranni,
regine, generali, monaci e affaristi, più o meno amati o controversi: è stato
il caso dell'ormai scomparsa Dall'Oglio, di Garzanti o della serie delle Scie
di Mondadori. Ma, se l'offerta nel tempo si è fatta sterminata, la domanda è invece
drammaticamente diminuita (con straordinarie eccezioni recenti come la
biografia autorizzata di Steve Jobs di Walter Isaacson), senza dubbio grazie
alla complicità della velocità e gratuità di consultazione del web e di sue
alcune fondamentali risorse del sapere enciclopedico come Wikipedia. Tentativi
di rilancio in questi anni non sono mancati: Castelvecchi, per esempio, ha
lanciato una prolifica nuova collana di classici “Ritratti”, dal Marco Aurelio di
Ernest Renan a Madame de Pompadour dei fratelli Goncourt mentre le edizioni del becco Giallo
hanno alimentato una serie di biografie a fumetti che racconta personaggi come Don
Milani, Fabrizio De André e Mauro Rostagno; ma la formula non ha certo più lo
stesso seguito d’un tempo. Se in passato si potevano accusare gli
storici di mestiere di voler conoscere soltanto le "gesta dei re"
(nel segno del “culto degli eroi” secondo la teoria ottocentesca “del grande
uomo” di Thomas Carlyle), oggi il problema potrebbe risultare l’inverso: grande
attenzione ai mutamenti di lunga durata (climatici per esempio), alla storia
globale del pianeta e dei suoi popoli più che ai singoli ed effimeri
protagonisti delle vicende delle “solite” lande d’Europa. Così che, accanto
alle biografie tradizionali dei personaggi più noti, del passato recente o
dell’attualità, si sono affacciati sempre più spesso, nel panorama della
ricerca e sul mercato dei libri, anche le vite di uomini e donne ai più
sconosciuti, come il Menocchio del magistrale Il
formaggio e i vermi (Einaudi)
di Carlo Ginzburg, un mugnaio processato per eresia nell'Italia del 1500, o Il mondo ritrovato di
Louis-François Pinagot dello
storico francese Alain Corbin (pubblicato da Garzanti), un fabbricante di
zoccoli nato nel 1798 in un piccolo villaggio della Normandia scivolato
silenziosamente nell’oblio del passato finché uno storico non ne ha trovato il
nome in un archivio anagrafico e ha cercato di capire chi fosse e che cosa
potesse pensare uno dei milioni di esseri umani che ci hanno preceduto nel
corso della storia senza lasciare tracce.
Quanti conoscevano del resto il
postcomunista Eduard Limonov prima che Emmanuel Carrère ne raccontasse le
ripugnanti imprese e Adelphi lo traducesse in Italia con un grande riscontro di
pubblico? E perché l'affermato scrittore francese, autore di Vite che non sono la mia, ha
dedicato un libro proprio a quella controversa figura? Perché più in generale
si scrivono tante biografie? Secondo Alberto Savinio, autore del parodistico Narrate o uomini la vostra storia,
la ragione è che “la biografia per noi è un gioco segreto... Siamo
scortati da qualche tempo a questa parte da un gruppo di nuovi amici costruiti
da noi di tutto punto, fra i quali distinguiamo Teofrasto Bombasto di Hohenheim
detto Paracelso, e Michele di Nostradamo, e Isadora Duncan, e abbiamo buone
ragioni di crederci simili a Carlomagno in mezzo ai suoi Paladini, altrettanto
ben difesi e onorati». La biografia era per lui l’occasione ideale per mettersi
nei panni di altri e farsi specchio, le sue vite di uomini illustri sono cioè
altrettante autobiografie, come nel caso di Michail Bulgakov che, scrivendo la Vita del signor de Molière, ritrovò
nell’“antico collega” tanto le affinità creative quanto comuni difficoltà nei
rapporti col potere. Raccontare la nostra vita, direttamente o attraverso
quelle degli altri, è in fondo un modo di esorcizzare il timore della fine, una
forma di terapia psicologica e forse un tentativo di prolungare indefinitamente
le nostre esistenze terrene. E l'intima confessione messa in piazza attraverso
i blog o i social network di oggi sembrerebbe confermarlo, portando il genere
biografico verso forme inedite e nuove frontiere.