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4.18.2024

PANEGIRICO DELL'OZIO INDAFFARATO

Da "Re Nudo" (Marzo 2024)

https://renudo.org/magazine/3807/marzo-2024/ 


Per un pregiudizio insano e duro a morire l’ozio viene scambiato troppo spesso per “l’opposto del lavoro”: il rifugio degli scansafatiche, insomma il trionfo del dolce far niente. Nulla di più falso. L’ozio autentico, al contrario, è decisamente “indaffarato”. Si concentra però rigorosamente su attività diverse dagli uffici quotidiani, lontano dal mestiere principale. Più o meno “fondato” dai Greci e poi ampiamente teorizzato dai Romani, l’otium si contrappone al negotium non per una scelta di fannullaggine ma per una sacrosanta necessità di svago operoso dedicato a pratiche alternative agli affari o all’incarico prevalente: dunque lo studio, i viaggi, le passioni, rustiche o cittadine, le attività ludiche e sportive, i piaceri della gola e della carne, il benessere dell’anima, il libero sfogo ai propri interessi in alternativa all’impegno e in puro spirito di libertà e di serendipity. Preferite le pantofole e il sofà a un concerto o a una visita d’arte? Nulla di più comprensibile ma difficilmente la vostra mente e il vostro corpo riusciranno a stare perfettamente immobili nel giaciglio che avete eletto a luogo del meritato riposo. Allungherete la mano verso un libro, controllerete i messaggi degli amici sul telefono, sognerete, pigerete un tasto sul telecomando per ascoltare un po’ di musica, guarderete una serie televisiva o navigherete in rete con o senza l’ausilio di qualche intelligenza artificiale. Senza impegno, beninteso, ma senza mai smettere di cercare qualcosa nel mondo che vi circonda.

Certo in origine l’ozio risulta anzitutto una forma di fuga aristocratica e, diciamo pure, con scarsa possibilità di presa presso i ceti meno abbienti e gli uomini e le donne in schiavitù. Ma l’ozio è in realtà la condizione imprescindibile per riuscire con successo in qualsiasi lavoro e a qualunque livello sociale. Se Seneca ne faceva una virtù stoica di armonia con la natura, Cicerone andava oltre sostenendo che nutrisse la dignità della persona e contribuisse alla stabilità del vivere civile. In fondo l’idea è quella di una pausa di rigenerazione senza cui il lavoro non può “rendere libero” nessuno (per citare l’infausto motto che accoglieva i deportati nei campi di concentramento nazisti).

In un mondo di workhaolic dove il lavoro ci insegue oltre gli orari d’ufficio grazie al telefono, alla posta elettronica e alle chat più o meno virtuali, riappropriarsi dei propri spazi diventa obiettivamente salvifico. E l’emergenza riguarda in particolare le nuove generazioni assillate dall’invadenza del mondo iperconnesso e dalla dittatura dei social network che le priva di ogni possibile esperienza di sanissima noia. Ne ha scritto diffusamente e con saggezza il sociologo Domenico De Masi: “Viviamo in una società dove ci insegnano a essere solo produttivi e non abbiamo un’educazione al tempo libero. Dobbiamo prendere atto del fatto che il lavoro non è tutto, che il progresso tecnologico ci fornisce infinite protesi con cui arricchire il nostro corpo di sensazioni e funzioni. Imparare ad arricchire le nostre ore mischiando il lavoro con lo studio e con il gioco in quel mix sublime che io chiamo ozio creativo”.

Non è però una conquista pacifica in un mondo che ha vissuto a lungo l’influenza del cristianesimo che predica l’inevitabilità della sofferenza terrena e guarda con   sospetto ai piaceri della vita. Per questo va accolto con gratitudine il filone di pensiero filo-ozioso che si è andato affermando tra Otto e Novecento. Tra i suoi corifei spicca l’umorista inglese Jerome K. Jerome, editor della rivista The Idler e autore di un caposaldo del genere: I pensieri oziosi di un ozioso. “La pigrizia è sempre stato il mio cavallo di battaglia” ha scritto, “è un dono di natura. Sono in pochi a possederlo. C’è una gran quantità di pigri, ci sono mascalzoni a bizzeffe, ma un ozioso genuino è una rarità. Non è il tipo che se ne va in giro con le mani in tasca. Al contrario, la sua più sorprendente caratteristica sta nel fatto che è sempre vorticosamente indaffarato. Perché è impossibile godere della pigrizia fino in fondo se non si ha parecchio lavoro da compiere.”

Insomma nulla a che vedere per intenderci con l’incarnazione letteraria della pigrizia, l’Oblomov di Ivan Goncharov, ritratto dell’indolenza e del vizio di un giovane rentier russo sopraffatto dall’apatia, e programmaticamente incapace di reagire alla decadenza ma ancor prima di passare dall’idea all’azione. Oblomov è una sorta di accidioso invertebrato incatenato tra sogno e realtà al suo polveroso divano in mezzo a ragnatele e libri ingialliti. Ma il suo non è ozio, appunto, piuttosto accidia. Non è forse vero ozio d’altronde neanche l’idealismo atarassico della comunione con la natura cui inneggia Jean-Jacques Rousseau nelle Fantasticherie di un passeggiatore solitario come via preferenziale per la vera felicità.

Più pungente e azzeccato sembra il punto di vista del letterato britannico Samuel Johnson che, a testimonianza di una vigorosa tradizione anglosassone sul tema, pubblicò tra il 1758 e il 1750 un centinaio di brevi saggi sull’ozio (poi raccolti in The Idler). E che, ritraendo anzitutto se stesso, scriveva: "Il Fannullone è per sua natura un criticone; quelli che non fanno nulla da sé, pensano che ogni cosa sia facilmente realizzabile, e criminalizzano tutti quelli che falliscono in un'azione." Ma per intendersi secondo Johnson occorre anzitutto partire da un teorema fondativo: “Colui che non abbia mai lavorato potrà conoscere i fastidi derivanti dal non far niente, ma certamente non il piacere.”

Per farsi un’idea delle due opposte correnti in campo vale la pena di leggere il delizioso e autobiografico Pigro viaggio di due apprendisti oziosi di Wilkie Collins e Charles Dickens che inizia così: “Nel mese di settembre due oziosi apprendisti, esausti per la lunga estate e il torrido lavoro, fuggirono abbandonando il posto. Non avevano intenzione di andare in nessun luogo particolare. Volevano soltanto stare in ozio.” Ma i due ben rappresentano appunto due distinti schieramenti: “Quella di Francis Goodchild era una pigrizia laboriosa, si sarebbe addossato qualunque fatica pur di esser certo di oziare. Thomas Idle invece era un ozioso passivo, del tipo irlandese o napoletano purosangue che razzolava come avrebbe predicato se non fosse stato troppo pigro per predicare.”

Opera seminale sull’ argomento – sempre in lingua inglese non a caso - è L’apologia dell’ozio di Robert Louis Stevenson, un invito travolgente a rifiutare ogni presunta etica del lavoro e abbracciare i semplici piaceri della vita come bere, mangiare e vivere all’aria aperta. Si è spinto oltre Bertrand Russell redigendo un vero e proprio Elogio dell’ozio in cui spiega perché il lavoro non può essere l’unico scopo della vita umana mentre lo è, non casualmente, per ideologie come il fascismo e il comunismo. Per il Premio Nobel molti grandi progressi nella storia dell’uomo sono stati possibili proprio grazie al “sapere inutile” e al tempo libero (per non parlare dei possibili vantaggi in termini di tendenza alla pace tra gli esseri umani).

Ma se non fosse sufficientemente chiaro benvenga il passo successivo, la teorizzazione e la rivendicazione di un Diritto all’ozio come quello propugnato a metà Ottocento da Paul Lafargue, rivoluzionario di origini creole, nemico del capitalismo e del suo culto per il lavoro “alienante” ma anche del clero e della sua predicazione sull’inevitabilità di una vita lastricata di sofferenze. Lafargue sposò una figlia di Karl Marx, Laura, ma non condivideva gli eccessi del determinismo economico del pensatore socialista. E non è un caso forse che abbia avuto più successo con il suo occasionale libello satirico che con il suo effettivo mestiere di rivoluzionario. Gli va concesso tra l’altro di essere stato un vero e proprio antesignano della “decrescita felice” in piena rivoluzione industriale.

Un esempio concreto di vita dedita all’ozio si ritrova in molti uomini di lettere e di scienza, come ricorda Tom Hodgkinson nel suo L’Ozio come stile di vita: basterebbe seguire gesta e propositi di Cartesio, Whitman, Chesterton, Thoreau e molti altri. Oscar Wilde sosteneva che “non fare assolutamente nulla è la cosa più difficile al mondo.” E Friedrich Nietzsche se la prendeva con il lavoro che “porta sempre più dalla sua parte la buona coscienza: il desiderio di divertimento prende il nome di “bisogno di svago”, e arriva perfino a vergognarsi di se stesso. “Lo facciamo per la nostra salute”, dicono le persone sorprese a fare un picnic.”

In questo senso noi occidentali potremmo aver qualcosa da imparare dalla tradizione orientale. Ne era convinto Herman Hesse, autore di un celebre scritto sull’Arte dell’ozio: “Quanto più la prepotente attività industriale priva di gusto e di tradizione ha assimilato anche il lavoro intellettuale inculcandoci l’ideale di uno sforzo coatto, tanto più l’arte dell’ozio è andata in rovina… Nel mondo occidentale l’ozio elevato all’arte è stato praticato solo da innocui dilettanti.” Non è un caso in effetti che in Cina già nel terzo secolo avanti Cristo un maestro del taoismo come Zhuang Zhou affermasse che “chi non sa usare il tempo libero ha più lavoro di quando c’è lavoro nel lavoro”.

Ma in fondo perché darsi tanto da fare intorno al concetto di ozio? Come cantano gli Oasis in The importance of being idle, “che importa finché c’è un letto sotto le stelle che brillano”?

2.03.2022

LA SCRITTURA DISEGNATA DI STEINBERG

Da PRETEXT
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Le radici letterarie di un artista lontano dai canoni

Artista geniale, fuori da ogni canone del Novecento, Saul Steinberg ha sempre mostrato una certa diffidenza nei confronti della parola e della scrittura che riteneva ambigue nel significato, a volte superflue, e in fondo inutilmente complesse. A differenza del disegno, s’intende. Quantomeno del suo.

Un paradosso per chi come lui ha esercitato una forte e lunga influenza nel mondo editoriale e letterario, delle riviste e dei libri (forse ancor prima che nel mondo dell’arte). Le sue illustrazioni per “Life”, “Time” e “Harper’s Bazaar”, le celebri copertine del “New Yorker”, sono entrate nel nostro immaginario e non ne usciranno facilmente. Come nel caso dell’iconica View of the World from 9th Avenue, la mappa stilizzata degli Stati Uniti visti dalla riva del fiume Hudson a Manhattan.

Ma una ragione c’è. A pensarci bene con i suoi disegni in bianco e nero, Steinberg ha inventato a sua volta una forma di scrittura alternativa, un linguaggio fantastico di segni essenziali e di comprensione universale (a differenza di quello tradizionale, osteggiato). Le sue invenzioni ironiche, i suoi personaggi stralunati, i paesaggi urbani e le composizioni più varie, nella loro essenzialità, corrispondono quasi a ideogrammi, segni grafici semplici e originali capaci di rappresentare idee, di raccontare paesi e costumi, di indagare luoghi e pensieri, di scatenare l’immaginazione. Non a caso diceva di sé: “So sei lingue ma la mia vera lingua è la linea”.

Secondo il critico d’arte Harold Rosenberg Steinberg era “uno scrittore d’immagini, un architetto del linguaggio e dei suoni, un progettista di trame filosofiche. Grazie alla sua passione per la penna, la matita e l’inchiostro e alla complessa natura intellettuale dei suoi prodotti si potrebbe pensare a Steinberg come a uno scrittore, per quanto unico nel suo campo.”

Sembrava pensarla in modo simile il semiologo Roland Barthes: “Sto lavorando su Steinberg, studiando più attentamente possibile il dettaglio del suo lavoro. Sollevo la testa, rifletto e lascio libero quello sguardo interiore che è la memoria. Ora so che cos’è per me la sua opera: un testo.” E aggiungeva: “Una sua tavola è 1) da leggere 2) da indovinare 3) da… Da che? Percepiamo che è richiesta una terza operazione che supera le altre due ma non sappiamo che cos’è.” Una linea interpretativa su cui ritroviamo anche Adam Gopnik quando afferma che “quel che fa Steinberg è rendere visibili le costruzioni della mente, concepire metafore e idee astratte e materializzarle in disegni.”

Steinberg, del resto, prima ancora di avere dei mentori nel mondo dell’arte - tra tutti Picasso, Matisse e Pollock - rivendicava l’ispirazione a scrittori come Joyce e Nabokov. Non a caso emigrati come lui, che arrivava da una famiglia ebraica rumena e, dopo una lunga tappa a Milano, dove aveva studiato architettura e iniziato a disegnare per “Il Bertoldo”, si era stabilito finalmente negli Stati Uniti. Nabokov lo conobbe, oltre a leggerlo, e fu sempre affascinato dalla sua biografia. Collaboravano tra l’altro entrambi al “New Yorker”.  Quanto a Joyce basti ricordare che si fece festeggiare a lungo il 16 giugno anziché nella data del suo compleanno: e cioè “Bloomsday”, il giorno delle peregrinazioni dell’eroe dell’Ulisse.

Figlio di un tipografo e rilegatore di libri di Bucarest, Saul si considerava un buon artista ma uno “scrittore mancato”. Non perché non fosse dotato in quel campo ma perché sentiva di non poter eccellere come avrebbe voluto. In ogni caso leggeva moltissimo ed era affascinato dalla lingua in traduzione: un tratto comune ad autori “in esilio” e segnatamente anche agli amati Joyce e Nabokov. Confessò in una lettera: “Ho letto Anatole France in italiano, Hemingway in francese (abbastanza divertente), I promessi sposi in inglese e una volta nel 1927, ho trovato Les precieuses ridicules in Yddish.”

Tra le opere di una vita, oltre ai disegni, si conserva una libreria realizzata in legno con cinquantasei finti volumi disposti sugli scaffali, tredici dei quali, non a caso, appaiono in traduzione: The Nose di Gogol, Il libro della giungla di Kipling, Le petit arpent du bon dieu di Caldwell, Crima si pedeapsa di Dostoevskji. “In questi giorni sto realizzando una libreria in legno” scrive all’amico Aldo Buzzi. “Libri russi in rumeno, libri francesi in italiano. Una sorta di autobiografia...”

“Di solito” confessava Steinberg, “mi trovo meglio con gli scrittori che coi pittori, con i quali la conversazione è difficile. Con Saul Bellow si parla bene: ha un grande bagaglio di nozioni e conoscenze inutili, di nonsense.”  Secondo lo stesso Bellow, tra l’altro, l’autore per cui Steinberg sentiva più affinità era Cechov. Conosceva i suoi racconti, le sue opere teatrali, i suoi epistolari e aveva letto molti dei suoi biografi. Lo scrittore russo aveva attraversato la Siberia per conoscere in prima persona la realtà dell’impero zarista. E durante la Seconda guerra mondiale anche Steinberg era stato in missione in un grande ex impero, quello cinese. 

Tra i molti scrittori affascinati dalla sua lingua disegnata ci fu Italo Calvino che così commentava un suo disegno: “Il signor S sostiene di aver visto il presente. Passeggiava fuori dalla sua casa di campagna d’inverno, nei prati. Abbassa lo sguardo e lì per terra c’era il suo presente di quel preciso momento, tutto intero, l’hic et nunc immobile come fosse congelato… Com’era fatto? Mah, era l’incrocio di linee.”

Arte concettuale? Forse ma appare riduttivo per un uomo così lontano dagli schemi. “Saul Steinberg mi ha fatto la gioia di illustrare il vuoto delle conversazioni di certi personaggi di un mio testo teatrale” raccontava il drammaturgo Eugène Ionesco. “Vi si vedono nelle nuvolette, come nei fumetti, uscire strane cose dalle loro bocche, orologi barocchi, per esempio, o delle specie di frasi illeggibili. In un’immagine ha detto meglio di me quello che volevo dire, cioè che questi personaggi non dicevano niente o che parlavano per niente.” Un altro suo ammiratore fu John Updike, attratto dalla “penna a punta fine di Steinberg che traccia ghirigori - calligrafia della mente, sismografo che fa giochi di parole.”

Per dirla tutta lo stesso Steinberg si sentiva un artista sui generis, sempre a cavallo tra design, caricatura, illustrazione, collage, decorazione, fumetto, calligrafia. Mai stabilmente ancorato a una sola forma di espressione, a un solo mestiere. E’ particolarmente evidente nell’ampia esposizione che gli ha dedicato la Triennale di Milano, a cura di Italo Lupi e Marco Belpoliti, dove è stata riproposta una lunga intervista con Sergio Zavoli in cui spiegava così il suo “rifiuto” per la pittura e la scultura: “Sono difficili e complicate e per me sarebbero una perdita di tempo. C’è nella pittura e nella scultura un compiacimento, un narcisismo, un modo di perdere tempo attraverso un piacere che evita la vera essenza delle cose, lidea pura; mentre il disegno è la più rigorosa, la meno narcisistica delle espressioni.”

Steinberg non esercitò nemmeno la professione di architetto, pur essendo laureato, anche se, come ricorda Aldo Buzzi, in ogni sua composizione si legge in controluce l’assimilazione di quegli studi. Questo viaggiare tra discipline, come il vagabondare nella vita, è in effetti una costante fondamentale per capire Steinberg. Non a caso uno dei suoi libri più noti s’intitola The Passport ed è una raccolta di quelle parodie di passaporti di cui scrivevamo poco sopra, falsi documenti, finte firme, timbri inventati, sigilli e lasciapassare immaginari che saranno una parte importante e ricorrente nella sua produzione. Il valore simbolico è evidente conoscendo la dimestichezza di Steinberg con documenti e passaggi di confini: dopo l’approdo in Italia dall’Est Europa, era fuggito nel 1941 a causa delle leggi razziali che gli impedivano di lavorare ed era arrivato a New York dopo un lungo pellegrinaggio tra Lisbona, Roma, Santo Domingo e Ellis Island. Non solo: aveva viaggiato poi molto in missioni all’estero come soldato dell’esercito americano (riportandone meravigliosi reportage disegnati) e continuò a farlo per tutta la vita.  Quel libro ebbe inevitabilmente una lettura satirica perché uscì nel pieno della caccia alle streghe di McCarthy in America (quando a comunisti e presunti nemici della patria non era permesso l’espatrio) ma fu in ogni caso soprattutto uno straordinario inventario di “visti” per meravigliose destinazioni del tratto e della grafica che avrà modo di visitare anche in seguito. Quelle false firme, una volta pubblicate, diventavano miracolosamente vere autenticando in qualche modo l’identità di Steinberg e certificando il suo ingresso nel mondo dell’arte.

Per descrivere un altro suo celebre libro, The New World, Steinberg immaginò questa epigrafe “Cogito ergo Cartesius est (Penso, dunque Cartesio esiste). Per me questo significa che ciò che io disegno è disegno, che il disegno deriva dal disegno. La mia linea vuole ricordare costantemente che è fatta d’inchiostro. Il lettore seguendo con gli occhi la mia linea diventa un artista (guardo dunque Steinberg esiste).”

Oggi, rileggendo la sua opera in cerca del suo carattere più distintivo e resistente nel tempo, viene spontaneo richiamare insieme il suo gusto per la parodia (che sentiva di condividere con Joyce e Nabokov) e la sua essenzialità, quella straordinaria capacità di sintesi ironica per cui aveva trovato tra l’altro una formula efficacissima, la “teoria del naso”: “Io credo che il naso sia la parte del nostro corpo più primitiva, la più originale e privata; gli occhi e la bocca sono già, come dire, elementi politici della faccia, mentre il naso è rimasto un po’ l’antenato della faccia, è la parte meno evoluta. Si può costruire il proprio viso disegnando sul naso stesso gli occhi, il naso e la bocca, e diventa un ritratto essenziale di me stesso. E non solo di me stesso, ma di tutti; tutti abbiamo un naso come elemento che ci identifica; è il naso che ci rende complici di noi stessi. La misura dell’uomo è il suo naso, è un po’ il nostro distintivo.”

Ecco. Con quel fiuto ironico Steinberg andò a caccia del senso dell’umanità per tutta la vita. Non era destinato a trovarla (come tutti) ma forse ci andò vicino.

 

Deirdre Bair, Saul Steinberg. A biography. 2012

Marco Belpoliti e Gianluigi Recuperati (a cura di) Riga 24. Saul Steinberg.  2005

Jessica Feldman in Saul Steinberg’s Literary Journey. 2021

Saul Steinberg, The Passport. 1954

Saul Steinberg, The Labyrinth. 1960

4.27.2020

ANATOMIA DEL CRETINO

Fruttero e Lucentini, maestri di editoria e antropologi dei vizi nazionali




da PRETEXT
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“Io e Franco siamo come Rimbaud, una sola anima di poeta, con questo piccolo problema tecnico di essere in due.” Carlo Fruttero non abbandonava l’ironia nemmeno quando parlava - seriamente - del sodalizio letterario che lo legava a Franco Lucentini: “Non c'è scrittore che non vorrebbe essere al nostro posto: perché possiamo dirci esplicitamente quello che gli altri sono costretti a pensare tra sé e sé.”
“La ditta” di F&L ha segnato un’epoca dell’editoria italiana: i due soci sono stati scrittori di successo, editorialisti di costume per quotidiani, collaboratori di riviste letterarie, autori di radiodrammi e cronache satiriche, hanno condotto trasmissioni televisive (con titoli naturalmente paradossali come “L’arte di non leggere”) e hanno militato soprattutto a lungo all’interno di alcune grandi case editrici italiane, come redattori, traduttori di Borges e Beckett, come editor, direttori di collane (per un ventennio alla guida di Urania), coltivando anche generi ritenuti un tempo “minori” come la fantascienza o la narrativa per ragazzi. Un grande e originale “lavoro culturale” di cui si ritrovano tracce abbondanti nel meridiano Opere di bottega, o nel manuale involontario I ferri del mestiere curato da Domenico Scarpa.
Come in ogni coppia affiatata le diversità superavano di gran lunga i tratti comuni: “Se Lucentini farfugliava con voce da basso, Fruttero parlava con il tipico falsetto piemontese” come ha scritto Pietro Citati, “se Lucentini leggeva l'Iliade e la Bibbia e i Nibelunghi e il Don Chisciotte, l'Eugenio Onegin e le saghe islandesi nel testo originale, Fruttero li leggeva in traduzione: se Lucentini si era laureato con 110 e lode, Fruttero non fece nemmeno un esame universitario.”
Quando passarono da Einaudi a Mondadori Italo Calvino scrisse di Fruttero: “Uno dei nasi più fini e meno indulgenti dell’editoria italiana, ora ahimè convertitosi, per scettico snobismo, alla cultura di massa». Di chi fosse davvero lo snobismo è discutibile ma sicuramente Fruttero e Lucentini dalla cultura di massa erano attratti, perché curiosi, fuori dai canoni e lontani da ogni forma di elitarismo.  È così in fondo che sono diventati studiosi raffinati e implacabili dell’italianità, antropologi emeriti dei vizi del Paese che hanno raccontato anzitutto con l’arma della satira, anticipando di fatto comportamenti ed eccessi oggi arrivati a livelli di guardia a partire dall’irrefrenabile impulso all’esibizione della stupidità che nell’era dei social network è diventata ormai la regola più che l’eccezione. Perché, come scrivevano profeticamente, “fra i tanti pudori che negli ultimi anni sono venuti a cadere in favore di belle franchezze gluteo-mammarie, ciclosanitarie, ascellari, intestinali, sessuali, psico-trivellanti e lagno-narcisistiche, bisogna mettere anche il pudore che un tempo l'uomo trovava nei riguardi della propria stupidità. Alla scomparsa di questo pudore F&L dedicarono Il cretino in sintesi, trattato definitivo su una delle figure dominanti della nostra società, nonché quarto volume antologico di una serie fortunata iniziata nel 1985 con La prevalenza del cretino, continuata poi con La manutenzione del sorriso e con Il ritorno del cretino.
La raffinatezza letteraria di quella guida all’idiozia del genere umano va di pari passo con la comicità irresistibile che diventa tragedia attraverso una storia del costume implacabilmente  mordace: se Vico diceva che la madre dei cretini è sempre incinta, gli autori ne trovano testimonianza continua nella storia antica e recente, parodiando l’accaduto o limitandosi a ricreare dialoghi di inarrivabile scemenza ascoltati forse dalla propizia postazione di una panchina torinese.
Inutile stupirsi dell’attualità che buona parte del “trattato” continua ad avere. Basta leggersi il dizionario di politica riportato alla fine del libro: dove dall’interim ai ribaltoni e all’antitrust nulla sembra cambiato nell'arte del governo e dell’obbrobriosa assurdità del gergo che vi impera. In qualche impietoso ritratto di personaggi del passato si può tranquillamente riconoscere qualche cretino contemporaneo assurto a protagonista della vita pubblica, perché - come è scientificamente dimostrato - la stupidità cresce man mano che si sale nella gerarchia sociale, che si arriva a una poltrona di rilievo e ci si occupa di questioni di vita o di morte in modo non poi molto differente da come si parla del tempo e della fine delle mezze stagioni. Del resto, come si legge in una chiosa della fatica enciclopedica, “la forza vincente del cretino sta nel fatto di non sapere di essere tale, di non vedersi né mai dubitare di sé. Colpito dalle lance nostre o dei pochi altri ostinati partecipanti alla giostra, non cadrà mai dal palo, girerà su se stesso all'infinito svelando per un istante rotatorio il ghigno del delirio.”
F&L smontano metodicamente il castello dei luoghi comuni costruito meticolosamente dalle folle di emuli di Bouvard e Pécuchet, gli “eroi” di Flaubert, picconano il muro degli idoli intoccabili del politicamente corretto, mostrando come solo l’ironia possa in fondo alleviare le ferite di un flagello che appare inevitabile. Un metodo scettico che ritroviamo in altre scorribande umoristiche dei due autori che hanno “celebrato” l’idiozia nazionale come Il significato dell'esistenza, romanzo d'appendice pubblicato sul Giornale nel 1974 e destinato a insinuare dubbi universali tra i lettori di ogni fede politica, religiosa o calcistica. Ma cosa spinse F&L, reduci allora dal grande successo editoriale de La donna della domenica, a mettersi sulle tracce della bistrattata e negletta Verità? Tutto nacque, come ricorda nel prologo la coppia torinese, da una proposta di Indro Montanelli che li convocò e propose loro un viaggio in Grecia e un reportage turistico-classicheggiante, destinato ad apparire a puntate sulle colonne del neonato quotidiano.
Ai nostri bastò un rapido consulto per rilanciare la posta: sarebbero partiti, sì, ma con l'ambizione di svelare nientemeno che il mistero dell'esistenza. «Trovatemelo e portatemelo qui», intimò il direttore. E così l'epica impresa ebbe inizio. Non senza ostacoli naturalmente: il senso della vita è materia scottante. Tanto che nella vicenda entrano in gioco un ente per la ricerca filosofica con diciottomila dipendenti, mentre la Fiat decide di mettere in busta paga un'indennità metafisica e i comunisti chiedono di sottrarre all'iniziativa privata l'esclusiva della manovra speculativa sul destino. Per assicurarsi l'alta posta in palio scendono in campo Cefis e Fanfani. Ma nemmeno l'offerta di un sostanzioso pacchetto d'azioni della «Standard Oil Company» riuscirà a distrarre l'incorruttibile coppia della caccia all'inconoscibile.
Segue così un lungo viaggio a bordo dell'Orient Express, foriero d'incontri indimenticabili: un pastore anglicano con un irresistibile attrazione per i capistazione, il corrispondente filosofico del Times (noto per aver sventato un vergognoso traffico di monadi leibniziane) e una misteriosa quanto splendida signorina, originaria di Zandobbio, in provincia di Bergamo. A Micene ecco i primi indizi: «Vasti giacimenti di fato, di una densità da tagliarsi col coltello». Ma la tappa decisiva è Delfi, l'antica città dell'oracolo che l'era del turismo di massa ha trasformato nel frattempo in un'invereconda fiera del vaticinio, popolata da maghi, chioschi del tarocco o dei fondi di caffè e distributori automatici di sentenze profetiche. Ma l’accesso all'oracolo della Pizia è sbarrato per «Lavori in corso». Riusciranno gli intrepidi inviati a portare a casa lo scoop del secolo, l’intervista con la Sibilla, dea della saggezza?
Quel libro racconta gli italiani di ieri e di oggi più molto più di corposi studi sociologici così come L’Italia sotto il tallone di Fruttero e Lucentini, romanzo fantapolitico sulle gesta autobiografiche dei due letterati che dalla Libia di Gheddafi marciano su Roma per prendere il potere in una sorta di parodia del fascismo. Un monito “ilarotragico” per l’oggi quanto la diagnosi della stupidità imperante. Perché, la storia insegna, non si dà regime senza l’aiuto di una buona dose di cretini in circolazione.



4.10.2020

IL ROMANZO DELLA SCIENZA

Il “big bang” della saggistica narrativa




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Immaginate un bambino timido e impacciato che scopre per la prima volta la tavola degli elementi di Mendelev nel silenzio del museo della scienza di Kensington. Perché ne rimanga segnato in modo inequivocabile occorre forse dare per presupposto un interesse spontaneo del ragazzo per la chimica, o più in generale per le materie scientifiche. Ma non c’è dubbio che, se quell’interesse non fosse stato coltivato grazie allo zampino di un mentore molto speciale come lo zio Dave, quel bambino non sarebbe diventato l’Oliver Sacks che conosciamo e non avremmo oggi la fortuna di poter leggere oggi i suoi libri come Zio Tungsteno, appunto, Risvegli e L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Tutti esempi di una divulgazione scientifica in chiave narrativa e autobiografica che ha contribuito a rendere affascinanti temi e trattazioni un tempo apparentemente aridi per molti lettori. 
Sul fronte della divulgazione Sacks ha segnato una piccola  rivoluzione insieme ad autori come Konrad Lorenz (tra i primi, L’anello di Re Salomone è del 1949), Stephen Jay Gould (Il pollice del panda), Paul Davies (Come costruire una macchina del tempo) e altri “pionieri” che hanno fatto ricorso al fascino delle storie e al ritmo di una fiction per svelare i misteri dell’universo, avvicinarci a teorie complesse o schiuderci mondi ancora lontani benché studiati a scuola tra lezioni mandate a memoria e formule indigeste. Non si tratta quasi mai di “saggi che si leggono come romanzi”, come si usa dire spesso un po’ sbrigativamente soprattutto nella propaganda editoriale, ma di veri e propri saggi che richiedono comunque una buona cultura di base e grande attenzione per ogni approfondimento del caso ma che dalla letteratura d’intrattenimento prendono a prestito tutti gli strumenti necessari a coinvolgere il lettore e istruirlo al meglio: ricostruzioni d’ambiente, dialoghi fittizi tra protagonisti reali, metafore, suspense e non solo.
Una delle chiavi principali per accompagnare il lettore alla scoperta della fisica, della biologia e di altre scienze più o meno “dure”, è quella autobiografica. Per tornare a Sacks, il modo con cui sceglie di schiuderci il magico universo della chimica è appunto quello di raccontare se stesso nella Londra degli anni Quaranta, vista attraverso gli occhi e l’immaginazione di un ragazzo alla scoperta del mondo. Un mondo dove ha un fondamentale ruolo di guida lo zio Dave, detto zio Tungsteno proprio per la sua passione nei confronti di quel materiale, che usava fabbricare in forma di filamenti di polvere o di barrette solide. Grazie a lui, Oliver scopre la storia della chimica attraverso esperimenti affascinanti e avventurosi che lo portano a conoscere praticamente le teorie di Boyle, Lavoisier, Avogadro, Curie e molti altri. Un’iniziazione importante che ha lo attrae per la schematicità di una disciplina caratterizzata da un ordine immutabile, ma anche per il suo opposto e cioè per la loro capacità di richiamare il sogno e forse la magia dell’alchimia dei tempi antichi.
Così quando all’età di soli quattordici anni lo stesso Sacks si rende conto che la chimica "naturalistica" e romantica dell'Ottocento, da lui tanto amata, è finita, e deciderà di fare il medico, seguendo la tradizione di famiglia, le radici di quella “gioventù chimica” (questo il sottotitolo dell’edizione originale), insieme al ricordo dello zio, in qualche modo continueranno a influenzarlo anche nella scrittura, che insieme alla medicina diventa il suo vero motivo di vita. Perché, a rileggere ogni libro di Sacks alla luce di questo, è evidente come il suo bisogno di esorcizzare le paure e i fantasmi della vita attraverso la scrittura, sia frutto proprio di quel suo passaggio iniziale dalla semplicità degli elementi chimici alla complessità e al caos di un mondo dove la normalità è sempre l’eccezione.
Il fascino delle storie personali scatta quindi anche quando le gesta narrate sono quelle di uomini straordinari ma sconosciuti al grande pubblico e anche se sono raccontate in terza anziché in prima persona. A differenza delle tradizionali biografie dei mostri sacri della scienza come Galileo o Pasteur in questo caso tende a prevalere la capacità dell’autore di ricostruire un’esistenza drammatica e di utilizzarla a fini divulgativi. E’ il caso di libri come L’uomo che amava solo i numeri di Paul Hoffman e Il genio dei numeri di Sylvia Nasar (forse più noto al grande pubblico nella sua versione cinematografica che riprende il titolo originale del testo, A Beautiful Mind). Sono le storie di Paul Erdos e John Nash, entrambi geni della matematica ed entrambi mai del tutto a loro agio nell’esistenza e nel contesto sociale in cui si sono trovati a vivere. Erdos non aveva moglie e figli, aveva un suo vocabolario particolare, considerava morto chi non si occupava di matematica e viveva la propria felicità solo all’interno del suo mondo dei numeri. Lo accompagnava una sola borsa con cui girava il mondo prima di suonare la porta di qualche conoscente e pronunciare una frase divenuta celebre “My brain is open” (che ha dato il titolo a un’altra sua biografia).
Nel 1999 la pubblicazione di Longitudine. Come un genio solitario cambiò la storia della navigazione di Dava Sobel, e il successo che ne è seguito, hanno segnato una tappa decisiva nell’affermazione della “scienza in forma di romanzo” e dell’idea di “portare in scena” grandi scoperte scientifiche attraverso personaggi e avvenimenti storici apparentemente secondari. Nei Paesi anglosassoni, dove ogni tendenza editoriale ha subito un nuovo termine di riferimento, si è iniziato a parlare di narrative non fiction. E gli esempi su quella traccia si son moltiplicati in fretta: L’ultimo teorema di Fermat di Simon Singh, La misura di tutte le cose di Ken Alder, che ripercorre le vicende dei due astronomi che in piena Rivoluzione francese misero le basi per i moderni sistemi di misura fino ad esempi più recenti, o in Italia in tempi recenti L’incredibile cena dei fisici quantistici di Gabriella Greison con protagonisti eccellenti in questo caso - Albert Einstein, Niels Bohr, Marie Curie - ma con un unico ideale setting teatrale per l’intera lunghezza del libro: il congresso Solvay a Bruxelles del 1927.
Ma c’è un altro stratagemma introdotto dalla saggistica narrativa ed è quello di calare il soggetto scientifico nella vita di tutti i giorni per mostrarci come sia più vicino a noi di quanto non pensiamo. Vi siete mai interrogati sulle origini dell’universo sorseggiando un caffè macchiato al bar di buon ora? Probabilmente no eppure un collegamento esiste e prende il semplice nome di schiuma. Nel suo La teoria del cappuccino Sidney Perkowitz spiega come una struttura a bolle caratterizza anche la birra, il pane, la panna, il polistirolo e persino la nostra ossatura. Lieve come una piuma e insieme incredibilmente intricata, la schiuma affascina da sempre pittori e poeti. Le sue geometrie rappresentano una sfida irresistibile per gli scienziati: i fisici stanno scoprendo che il big bang è forse il risultato di un’oscillazione della «schiuma quantistica», gli astronomi ipotizzano che la struttura attuale dell’universo sia costituita da bolle gigantesche; senza dimenticare che i biologi ritengono che la schiuma abbia avuto un ruolo fondamentale nella nascita della vita e nella creazione delle prime membrane cellulari. Con esemplare chiarezza, insomma, l’autore esplora le varie sfaccettature della «scienza della schiuma».
L’idea di una scienza alla portata di tutti (o quasi), di una divulgazione scientifica seria ma semplificata ad uso dei non addetti ai lavori, non è recente ma la sua declinazione in varianti sempre più fantasiose è sempre più all’ordine del giorno. Al suo barbiere Einstein la raccontava così recita il titolo di un volume di Robert L. Wolke, professore di Chimica, che offre risposte concise e illuminanti sui classici misteri del mondo fisico. Perché il mare è blu? Perché gli uccelli non restano fulminati sui fili dell’elettricità? O come può funzionare, per esempio, un orologio collegato con alcuni fili a patate o ad agrumi come le arance?

Benedetto Croce si vantava di non intendersi di scienze e l’opposizione forzata tra cultura umanistica e ha fatto sicuramente molti danni nel nostro Paese ma, almeno sul fronte editoriale, quell’era sembra definitivamente tramontata. Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli è stato uno dei libri di saggistica più diffusi in Italia negli ultimi anni e la storia di come si è arrivati per la prima volta a calcolare la longitudine è diventato il capostipite, a volte involontariamente colpevole, di un’intera genia di libri che vi hanno fatto riferimento senza rispondere in realtà agli stessi requisiti. Certo, trovare scienziati dotati di una buona capacità di scrittura non è cosa semplice, ma i casi di Richard Feynman (Sei pezzi facili) e Richard Dawkins (Il gene egoista) sono ormai sempre meno isolati. E molti giornalisti scientifici non sono meno accurati e preparati nello sciogliere i grandi enigmi della vita sulla terra o dello spazio infinito. E chissà che la saggistica narrativa non contagi prima o poi anche la scuola rendendo più attraenti materie ridotte spesso alla collazione di numeri e assiomi. Senza spaventarsi di fronte a un libro dedicato alla Fisica di Star Trek (da Lawrence Krauss) solo perché richiama avventure fantascientifiche e ozi televisivi. Potrebbe risultare molto più utile - e non solo piacevole - di molti saggi accademici. 



1.10.2019

L'ULTIMO REPORTER

Ascesa e caduta del "giornalista da romanzo"



Da "PRETEXT"

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La deriva imboccata dalla stampa negli ultimi anni ha portato a dibattere sulla data di pubblicazione dell’ultima copia del New York Times e a fantasticare dei nuovi e brillanti mestieri dell’informazione digitale, ma sembra aver evitato l’elaborazione di un danno tutt’altro che collaterale e cioè la scomparsa della figura del giornalista da romanzo così come è evoluta nell’immaginario collettivo dell’ultimo secolo (anno più, anno meno). Non è in causa la scomparsa del giornalismo, sia chiaro, ma proprio quella del mitico inviato speciale, armato solo di trench, penna e taccuino nelle remote trincee del Pianeta, o del suo paradigmatico opposto, il cronista politico senza scrupoli, pronto a ogni compromesso tra velleità di potere e ambizione sociale. Come in un giallo perfetto, le indagini sono state minuziose e i detective si sono sfidati con analisi e deduzioni brillanti ma si sono concentrate essenzialmente sulla crisi dei giornali senza accorgersi del cadavere che giaceva da un pezzo in mezzo alla stanza: quello del giornalista da leggenda e dell’aura un po’ maledetta che ne ha accompagnato per lungo tempo le gesta.
Honoré De Balzac, in un suo piacevole “trattato”, distingueva con un certo sprezzo tra camarillisti parlamentari, panflettisti, fabbricatori di articoli di fondo, factotum, nientologi, incensieri, giustizieri e molti altri. Ciascuno di essi, nel suo aspetto autentico o caricaturale, era palesemente un personaggio da fiction tanto quanto poteva esserlo uno scrittore boehmien o un politico corrotto. Nel tempo le cose sono cambiate di poco: alle figure elencate si sono aggiunti “culi di pietra”, addetti al desk, inviati di punta, editorialisti, tuttologi e “scavafango” (come li ha definiti James Ellroy in American Tabloid), mezzibusti televisivi, miti mediatici (da Peter Arnett a Christian Amanpour) e infine campioni dei social network, youtuber e artisti della corrispondenza virtuale istantanea. Anche se l'impressione è che questi ultimi abbiano raggiunto grandi vette di popolarità ma forse non il fascino dei professionisti delle news dell’era precedente all’avvento del Web. Senza contare il rischio di un labile confine tra alcuni giornalisti di grande seguito internettiano e i veri e propri influencer.
Nel nuovo mondo delle fake news e dei troll dispensatori di verità improbabili, nessuno mette in dubbio l’importanza delle notizie o la necessità del giornalismo investigativo. Anzi: della cocciutaggine del cronista c’è sempre più bisogno e, tra le nuove leve, le autentiche regole del mestiere sono forse più sentite di prima. A sua volta il citizen journalism, che fa di ogni cittadino un potenziale scrittore civile e una fonte d’informazioni apre senz’altro prospettive di trasformazione assolutamente promettenti se e quando non prende la forma dello sfogo collerico protetto dall’anonimato della Rete. Al massimo si può far notare che la caccia alla notizia sceglie spesso la scorciatoia della frivolezza e che si è passati con una certa disinvoltura dai dispacci di Luigi Barzini nella guerra russo-giapponese d’inizio Novecento ai tweet di puro gossip sui seni rifatti di qualche vip. Ma l’ossessione dello scoop resta vivissima e, se qualcuno rimpiange il mitico reportage del caso Watergate o le interviste di Oriana Fallaci dovrebbe ammettere che in ogni caso l'offerta giornalistica odierna è sempre più ampia: dalle immagini proibite delle guerre più esotiche alle inchieste sugli scandali politici e finanziari su scala locale o planetaria. Se la competizione si è allargata e gli attori della comunicazione si sono moltiplicati, è anche vero che è cresciuta vertiginosamente anche la possibilità di far emergere uno scandalo o di portare all'attenzione del pubblico le notizie più remote e inaccessibili.
E' proprio in questo passaggio però che è stato commesso il delitto di cui sopra: la tecnologia ha ucciso a poco a poco la figura romantica e maledetta del giornalista che ha vissuto a lungo nella realtà e ancor più in un fervido immaginario folkloristico coltivato da saggi, racconti,  mitologie metropolitane e dalla stessa comprensibile necessità di ognuno di noi di dare un volto e un carattere definito (positivo o negativo a seconda delle necessità) ai dispensatori di notizie, di opinioni e di consigli utili alla comunità. Non è una semplice questione di conservatorismo e nostalgia. O almeno non è solo questo. I grandi reporter di un tempo avevano, è vero, l'aria di appartenere a una ristretta aristocrazia internazionale di raffinati reporter della vita, ma non c'era in effetti alcuna particolare patente di nobiltà per membri e affiliati dell'élite giornalistica. In redazione si arrivava un po' da ogni dove e la carriera dipendeva tanto dalla bravura professionale quanto dalla capacità di navigare tra la gestione di un direttore di giornale, le lotte tra colleghi, gli umori del proprietario della testata e le pressioni di imprenditori e politici di turno. Una volta dentro al giornale, la sigaretta ti si appiccicava al labbro in un certo modo, il ticchettio della macchina da scrivere ti accompagnava anche fuori servizio e gli abiti si raggrinzivano inconfondibilmente insieme a un’aria vagamente maledetta.
“Mezzo secolo fa”, si legge in Come si scrive il Corrriere della Sera, “un famoso film interpretato da Joel MacCrea, The Foreign Correspondent ambientato nella Germania agli albori del nazismo consegnò alla storia un’immagine romantica del corrispondente dall’estero: un riluttante ma coraggioso detective in Borsalino e trench dedito alla verità e alla giustizia…” Se quello era il modello dell'inviato internazionale di celluloide, la sua versione in carne e ossa (con tanto di impermeabile sdrucito) fu il francese Albert Londres, noto per la famosa frase con cui abbandonò il giornale per cui scriveva: “Signori continuo a credere che un giornalista debba seguire una sola linea, quella ferroviaria”. Fu inviato tra l’altro nella Ruhr occupata dai francesi nel 1923 e nel 1929 partì alla scoperta delle comunità ebraiche europee, per incarico del quotidiano "le Petit Parisien". L'inchiesta lo portò da Londra alla Russia subcarpatica, poi in Transilvania, in Bessarabia, in Bucovina, in Galizia, dove visitò ghetti e insediamenti ebraici misconosciuti, raccontando le drammatiche condizioni di vita, la diffusione del sionismo alla vigilia dell'Olocausto e infine la fuga e l'emigrazione sulle navi della diaspora verso la terra promessa in Palestina.
Ma per capire come nasce la figura antropologica del reporter d’antan occorre tornare appunto al romanzo perché della fiction il giornalista è stato spesso tanto il protagonista quanto l'autore. Si pensi all’Arthur Pendennis di William Thackeray, autore della Fiera delle vanità e pungente articolista del Punch. E questo è in fondo naturale se si pensa quale straordinario concentrato del suo tempo rappresenti il giornalista: un perfetto campione della realtà perché, attraverso di esso, la possibilità di descriverla si moltiplica magicamente, a seconda della parte del mondo di cui il pennivendolo, o il suo giornale, si occupano (dai gatti caduti dal tetto alle massime questioni internazionali, dalla cronaca finanziaria e politica alle rubriche per cuori infranti).
Indimenticabili i giornalisti descritti da Dickens nel Circolo Pickwick come Boz, osservatore e caricaturista umoristico della vita borghese inglese. Dickens, non a caso, prima di diventare il più famoso romanziere dell’età vittoriana, era stato cronista parlamentare, dopo aver trascorso quell’infanzia misera e infelice che rievocò in parte in Oliver Twist e David Copperfield, con il padre in carcere per debiti, e lui costretto a lavorare in fabbrica e poi come commesso. Ci sono poi i personaggi di Anthony Trollope e Thomas Hardy, quelli caricaturali e quelli brutalmente rapiti dalla realtà, come i personaggi di Henry Fielding; il Lucien Rubempré delle Illusioni perdute di Balzac o il Bel Ami di Maupassant (entrambi individui senza scrupoli ma in fondo oggetto di una malcelata ammirazione degli stessi autori di fronte alla rapida ascesa sociale, o alla discesa agli inferi, dei rispettivi personaggi). Tra i due il secondo, il bel Duroy (“una canaglia descritta da una canaglia”, secondo la definizione di Henry James), è forse l’esempio romanzesco più felice del dongiovanni interessato che fonda la sua arrampicata tra giornalismo politica su amori e favori di vario genere. Dalla conquista di Madame Walter, la moglie del padrone del suo giornale fino alla seduzione dell'adolescente Susanna, figlia del milionario Walter e della sua stessa ex amante, sembra riuscire a conservare "una specie di spontaneità… quasi un'ombra di primitiva innocenza".
Di altra pasta, almeno nelle intenzioni dell'autore, sono i redattori dell'omonima commedia di Gustav Freytag (i redattori dell' “Unione” e del “Coriolano” i giornali rivali di una città di provincia, in periodo elettorale, autentiche macchiette come Kämpe, che redige gli articoli di fondo, Körner che scrive le corrispondenze dall'estero, stando in redazione e il capo Bolz, che detta a un certo punto un perfetto ritratto dello spirito dei gazzettieri: “Chi appartiene alla nostra corporazione ha l'ambizione di apparire scrittore umoristico o scrittore di polso; il resto non c'importa. Noi giornalisti ci alimentiamo dei fatti del giorno; tutte le pietanze che Satana manipola per gli uomini dobbiamo assaggiarle. Chi lavora a un'opera giornaliera non è forse giusto che finisca con l'adattarsi a vivere giorno per giorno? E noi ronziamo come le api, sorvoliamo in ispirito il mondo, suggiam miele dove ne troviamo, ma dove qualcosa ci irrita piantiamo il pungiglione. Una simile vita non è certo fatta per produrre grandi eroi; ma è pur necessario che ci sian tipi della nostra specie.”
Matteo Cantasirena, personaggio della Baraonda di Gerolamo Rovetta (1851-1910) è un “tipico profittatore del patriottismo.” Furbo, intrigante, invadente, e talora - quando il denaro corre - a suo modo, generoso e prodigo, il commendatore Cantasirena, bell'uomo dalla barba bianca, dall'aspetto autorevole, dagli occhi buoni, dal tratto affabile e paterno, fa il giornalista, a tutto adattandosi pur di procurarsi denaro: così presta la sua penna per poco eroici servigi di carattere elettorale e soprattutto sfrutta abilmente l'umana vanità adulando gli uomini “che han fatto l'Italia”.
Poi viene il tempo dei più sofisticati o più scafati “violinisti da bordello” del Novecento, come il Fowler corrispondente in Indocina nell’Americano tranquillo di Graham Green, i deuteragonisti de I giornali di Henry James (vittime del moloch di Fleet Street) o ancora Mister Flack, che ne Il Riflettore di James è il corrispondente mondano dell’omonimo giornale scandalistico che ai propri fini carpisce a un’ingenua ragazza indiscrezioni sull’aristocratica famiglia del fidanzato, gli scrittori rivali dell’Informazione di Martin Amis o l’ubriacone Peter Fallow nel Falò delle vanità di Tom Wolfe.
Lasciando da parte molti altri possibili esempi – come gli scenari mai troppo fantapolitici di George Orwell (1984), dove al redattore si sostituisce di fatto un funzionario del ministero della Verità, addetto alla correzione dei vecchi numeri del Times - una piccola indagine comparativa potrebbe mettere in rilievo come, alla graduale diminuzione della stima nei confronti dell’“impiegato della notizia”, corrisponda un crescente livello d’ironia nella sua descrizione, in tutte le possibili sfumature del caso: dal forte realismo descrittivo di un Balzac all’umorismo canzonatorio fino alla feroce satira di costume. Su questo versante gli autori anglosassoni sono stati molto efficaci: dall'esilarante Psmith di Wodehouse, deciso a trasformare la testata “Dolci Momenti” in una rivista d’assalto e di ruvida denuncia sociale e l’inviato Mister Boot creato dalla penna di Evelyn Waugh. E sul tema ha scritto magistralmente anche Mark Twain in un paio di racconti: Come fui redattore di un giornale agrario e Giornalismo nel Tennessee.
L’Inviato speciale di Waugh merita un piccolo approfondimento. Di origini agiate ma non aristocratiche, pittore mancato, allevato a Oxbridge e nutrito del suo pedante conformismo, Waugh vive la fine dell’età vittoriana, il declino dell’Impero coloniale britannico e la tragedia della grande guerra. “Nel 1935” racconta, “ci fu l’invasione dell’Abissinia da parte degli italiani. Tornai in Africa nelle vesti di corrispondente di guerra (per il “Daily Express” ndr). Per quanto poco sul serio potessi prendere il mio compito e anche le arie dei miei colleghi, avevo pur sempre indosso la livrea dei tempi nuovi… Ma le speranze di allora si sono rivelate sciocche ingenuità”. E’ allora e in quei luoghi che iniziano a intrecciarsi i suoi destini con quelli del protagonista dell’Inviato speciale, William Boot, placido corrispondente di argomenti botanici e bucoliche amenità venatorie dalla provincia inglese. Il signor Boot viene infatti richiamato dall’editore a Londra e scambiato per uno scrittore emergente a causa di una delle più classiche omonimie e spedito, suo malgrado, a seguire una crisi internazionale in un luogo, l’immaginaria (ma non troppo) Ismaelia - che non poteva rivelarsi in alcun modo più distante da lui.
C’è una celebre legge del pessimismo (più precisamente la legge di Fuller teorizzata dall’umorista Arthur Bloch) secondo cui più lontano accade una catastrofe o un incidente, più alto deve essere il numero di morti e feriti perché faccia notizia. A Ismaelia, in verità, la guerra non è ancora scoppiata, ma i rumors sono sufficienti per scatenare coorti di affilati ‘imbrattacarte’. Boot, che arriva da un mondo incantato che assomiglia molto alla corte di Blandings dipinta dalla fantasia di Wodehouse, farà in fondo quello che ognuno si aspetta da un buon giornalista – come diceva Longanesi - “che ci spieghi benissimo quello che non sa”. E grazie all’antica legge dell’antimeritocrazia, il nostro perfetto antieroe s’innamora (non ricambiato) della consorte di un geologo in missione e, grazie alla propria inettitudine, scopre infine un tentativo di colpo di Stato sfuggito ai colleghi di mezzo mondo.
Fin qui abbiamo i giornalisti di carta stampata; ma ci sarebbero anche quelli disegnati, eroi dei comics come Clark Kent, alias Superman, che lavora come redattore al “Daily Planet” e che non casualmente ha lasciato ultimamente la prestigiosa testata per tenere un blog in proprio. Ma un capitolo fondamentale del grande romanzo del giornalistico è quello di celluloide. "E' la stampa, bellezza!" secondo una delle citazioni più abusate di sempre. A pronunciarla nel film L'ultima minaccia di Richard Brooks è il direttore, Humphrey Bogart, facendo ascoltare all'interlocutore che ha al telefono il rumore delle rotative. Ma le pellicole che hanno contribuito a costruire la leggenda sono molte: da Piombo rovente di mackendrick a L'asso nella manica con Kirk Douglas; da Quarto potere di Orson Wells a Prima Pagina con Walter Matthau e Jack Lemmon, dall’Asso nella manica di Wilder a Qualcosa di personale con Michelle Pfeiffer e Robert Redford; da Tutti gli uomini del presidente di Alan Pakula a Insider con Al Pacino e Russell Crowe; da Quinto potere di Sidney Lumet a Dentro la notizia con William Hurt; da Professione reporter di Antonioni a Un anno vissuto pericolosamente con Mel Gibson; da Accadde una notte con Clark Gable e Claudette Colbert a Sesso e potere di Levinson con Dustin Hoffman, dove viene inventata una guerra in Albania per distrarre le attenzioni del Paese sullo scandalo sessuale che coinvolge il presidente; fino al più recente Goodnight, and good luck di e con George Clooney che veste i panni e rievoca le gesta dell'integerrimo reporter Edward Murrow conduttore della Cbs che si oppose alla caccia alle streghe comuniste del senatore McCarthy.
Un elenco pressoché sterminato di lungometraggi che hanno di volta in volta issato i giornalisti nell’empireo celeste o liquidato le loro controfigure cinematografiche nella feccia degli arrampicatori corrotti, pronti a tutto per una conduzione serale del tg. Raramente una via di mezzo: martiri della libertà d’informazione con i muscoli di Stallone e il profilo di Redford o corrotti, piccoli truffatori e faccendieri al servizio di sporchi interessi e pericolose collusioni.
La realtà, per chi abbia minimamente frequentato le trincee del giornalismo odierno (e con buona pace del grande Kapuscinski, o meglio del titolo di un suo libro, secondo cui Il cinico non è adatto a questo mestiere, rischia di essere un po’ più complicata e meno romantica se si pensa agli infiniti compromessi (politici e non) o alle inevitabili banali meschinità commesse non in pieno Territorio Comanche (come Arturo Pérez-Reverte definisce trincee di guerra e frontiere pericolose) ma nella penombra di redazioni, circoli bocciofili e varie stanze dei bottoni.
Oggi il reporter di un tempo, ammesso naturalmente ci sia stata davvero una corrispondenza tra lui e la sua idealistica versione da romanzo, non sopravviverebbe a lungo a modi e tempi del nuovo mondo a realtà aumentata e a vorticoso rimo di obsolescenza. Resuscitarlo naturalmente servirebbe a poco ma ricordarne il valoroso servizio sul vasto fronte della cultura occidentale è doveroso e ogni piccola lezione di storia in fondo rischia sempre d’insegnare qualcosa.


7.06.2018

LA TRAPPOLA DELLA "BUONA CENSURA"


Come la sindrome del politicamente corretto ha contagiato il mondo dei libri

(Da PRETEXT)

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Che cosa accadrà al vecchio verro della Fattoria degli animali di Orwell e ai Tre porcellini in lotta col lupo? Spariranno per sempre dai nostri scaffali e dal nostro immaginario? Saranno sostituiti da animali più presentabili e politicamente corretti? A spingerli tra le specie a rischio d’estinzione è l’epidemia del politicamente corretto che ha progressivamente contagiato la cultura occidentale. Per fortuna i suini di cui sopra non si trovano nel catalogo della prestigiosa Oxford University Press, vista la nuova linea editoriale che ha proibito ai suoi autori di menzionare nei testi le parole "maiale" e "carne di maiale" (e le loro brave derivazioni: salsicce, salame, prosciutto e via insaccando) con l’intento di non offendere i lettori musulmani ed ebrei.
Sono solo linee guida, secondo l’editore inglese: "Pubblichiamo libri in 200 Paesi e consigliamo sempre ai nostri autori di rispettare le sensibilità locali, le differenze culturali". Proposito nobilissimo naturalmente, ma se dovessimo rispettare la  “sensibilità” di ogni gruppo, comunità e individuo in ogni pubblicazione e magari con effetto retroattivo su qualunque testo della letteratura mondiale, ci troveremo prima o poi a vagare in un mesto cimitero di parole defunte e di epitaffi alla fine dell’immaginazione. Come rischia di accadere ne La meravigliosa O (1957) di James Thurber, storia di un pirata che si impadronisce di un’isola e mette al bando la lettera O, che detesta in modo viscerale da quando la madre è rimasta incastrata in un oblò. Per fortuna i ribelli sull’isola non mancano, continueranno a parlane con la lettera vietata e manderanno a monte il piano del corsaro perché “a coat is not a cat and a boat is not a bat” o, nella versione italiana, “quando voglio le uova non voglio l’uva”.
Un chiaro esempio del rischio che corriamo è rintracciabile nelle fiabe politicamente corrette riscritte da James Finn Garner. Nelle nuove versioni dei classici per l’infanzia l’imperatore non è più nudo ma segue la moda di stagione, Biancaneve si rifugia dai sette diversamente alti, Riccioli d’oro è una scienziata impegnata a studiare l’antropomorfismo degli orsi e le sirene si vedono finalmente riconosciuti i diritti fondamentali che quel conservatore di Hans Christian Andersen non aveva mai concesso ai protagonisti delle sue storie (nell’Ottocento). Più che un adattamento, una satira che mette alla berlina il tentativo di normalizzare anche le più tradizionali forme narrative per proteggere i bambini (ma forse gli adulti in primis) dalle ingiustizie del mondo. Ma il rischio di svegliarsi in un incubo di anodina perfezione è dietro l’angolo e tenderebbe ad assomigliare purtroppo alla dittatura di 1984 di Orwell dove il partito unico ha imposto una neolingua priva di sfumature eterodosse e il Ministero della Verità si preoccupa di correggere testi e articoli del passato perché corrispondano al dettato del Grande Fratello. Inevitabile il riferimento al futuro distopico di Farenheit 451 (la temperatura a cui brucia la carta) di Ray Bradbury in cui il pompiere Montag è addetto a incendiare le case di chi viola la legge conservando i libri banditi: “Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite... per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia”.
Prendiamo uno dei grandi personaggi della storia della letteratura: il capitano Achab del Moby Dick di Herman Melville. Fino a qualche tempo fa non avremmo avuto difficoltà a definirlo semplicemente un cacciatore di balene. Ma per un numero crescente di persone andrebbe chiamato col suo “vero nome”: “una persona portatrice di un comportamento scorretto nei confronti dei cetacei a rischio di estinzione”, un uomo contrario a ogni regola fondamentale per la conservazione del patrimonio ambientale, anzi un rappresentante convinto del dispotismo del mercato globale, pronto a fare affari con l'industria monopolistica dell'olio. Se pensate di potervi imbattere in una definizione di questo tenore solo negli ambienti più radicali di qualche città liberal americana siete molto ottimisti: ora potrebbe capitarvi in molti paesi al di qua dell’Atlantico e vi conviene esser pronti ad esser coperti di improperi se sosterrete tesi differenti sull’argomento con dichiarazioni non sufficientemente eufemistiche.
Nella nuova versione di Huckleberry Finn di Mark Twain, curata dal professor Alan Gribben, la parola nigger è stata sostituita con slave (schiavo) ed è scomparso il termine injun (indiano) per non urtare la sensibilità delle minoranze pellerossa. Senza considerare però che il testo così finisce per cambiare il significato attribuito dall’autore che, quando ha scritto il libro alla fine dell’Ottocento, ha usato parole di uso comune che non avevano alcun intento spregiativo. Si potrebbe aggiungere che non si tratta di un comportamento tanto nuovo in fondo. Prendiamo le istruzioni che Elio Vittorini diede nel 1964 a Fernanda Pivano, traduttrice delle poesie di Allen Ginsberg: “Sostituire sperma con seme; sostituire l’ultima sbora con l’ultimo sperma", "sostituire buco del culo con b.d.c.", "sostituire cazzo con membro", "sostituire l’intera parola culi con tre puntini", "sostituire l’intera parola cazzo con tre puntini". Il tutto si ritrova in una lettera inviata dalla direzione editoriale Mondadori; ma il contesto era differente e la versione edulcorata di Howl era volto a evitare problemi in vista della pubblicazione di un’antologia poetica, visto "il moralismo della Magistratura Italiana".
Il fenomeno del politicamente corretto, mosso dal desiderio di evitare ogni forma di emarginazione dei più deboli, sarebbe in fondo condivisibile da chiunque se non raggiungesse punte radicali ed effetti parossistici nocivi per tutti. Il rischio è anzitutto che si riduca a una pura manifestazione di conformismo: una piccola maschera che ci abituiamo a indossare per non risultare antiquati. Un comportamento di adesione alle convenzioni volto a nascondere la nostra identità reale che finisce per trasformarsi, giorno dopo giorno, in quella ufficiale. Diciamo alcune cose perché altri ci assicurano che sono quelle corrette e infine noi stessi crediamo che lo siano. Anni fa per esempio la parola globalizzazione evocava straordinari e pluriennali piani di sviluppo in vista del raggiungimento della prosperità planetaria. Ora è l’esatto opposto: non essere schierati contro la globalizzazione può crearvi qualche problema. E da questo punto di vista il mercato editoriale della carta stampata è uno specchio perfetto di questo fenomeno: tutti – chi più chi meno – hanno contribuito all’esaltazione dei fecondi destini di internet e delle sue prospettive neodemocratiche, aspettando solo la conclusione del flusso positivo per virare freneticamente verso posizioni virulentemente antitetiche alle precedenti.
A ben guardare, adottare il metodo della correttezza politica può essere un modo di affrontare i nostri tabù, e le proibizioni che li circondano, è un modo di nascondere soprattutto le nostre paure di fronte a ciò che è diverso o appare tale. Azar Nafisi, autrice di Lolita a Teheran sostiene che “il politicamente corretto è assolutamente incompatibile con la letteratura perché non consente alcun tipo di dibattito e punta a eliminare i pregiudizi facendo appello alle emozioni”. Un’affermazione fatta con cognizione di causa considerando che l’autrice iraniana ha dovuto lasciare il suo Paese per le critiche scatenate dal suo romanzo. Si cercano soluzioni facili a situazioni complesse, ma l’arte e la letteratura hanno un altro compito: dovrebbero metterci di fronte al caos dell’esistenza attraverso l’invenzione e farci sentire a disagio può essere una conseguenza necessaria.
Qual è allora l’origine del fenomeno “Pol. Corr.”? È un concetto esclusivamente yankee? È davvero un pericolo nuovo dal punto di vista storico? Nella sua Cultura del piagnisteo Robert Hughes suggerisce un'origine “tribale”. Non a caso la parola taboo (nell’adattamento inglese) o tabou (in quello francese) viene da alcune splendidi atolli del Pacifico dove veniva utilizzata per indicare gli oggetti più sacri e proibiti. Ma la fortuna del termine arriva grazie alle interpretazioni antropologiche e alle teorie psicologiche (Freud in testa). Come ogni forma di tabù il canone politicamente corretto cambia a seconda delle latitudini, della cultura e dei periodi storici. Nel mondo contemporaneo sembrano perdere forza progressivamente tabù tradizionali come la morte, la malattia e il sesso. Anche se non vale per tutti ovviamente e spesso prevale un trattamento comico del tema teso a esorcizzare   timori ancora vivissimi o a sfumare grandi dilemmi morali. In ogni caso il maggiore tabù del nostro tempo è forse la questione della differenza fra gli esseri umani, che si tratti di pelle di colore diverso o di conflitti di genere, non solo tra uomo e donna ma tra identità sessuali sempre più numerose: lesbian, gay, bisexual, transexual, transgendered, questioning o (queer): LGBTQ. Anziché un valore, la diversità sembra dover essere nascosta da definizioni sempre più tortuose e  florilegi retorici.
Hughes analizza la “falsità culturale” del fenomeno american, la diffidenza della politica convenzionale, l'atteggiamento scettico nei confronti di qualsiasi autorità e il trionfo della superstizione; una lingua corrosa dall'eufemismo. All’origine c’è il multiculturalismo, che nasce certamente come concetto positivo ma quando perde la misura e assume toni apocalittici finisce per riflettere un malessere culturale molto più profondo che in America è stato negli anni Ottanta quello dell’università. La specializzazione eccessiva, l’assurdo carrierismo dei board accademici che assomigliavano alla celebre accademia reale di Lagado delle Avventure di Gulliver di Jonathan Swift dove un manipolo di esperti lavorano per estrarre i raggi di sole dai cetrioli e per costruire le case del Regno. “All'interno delle università americane l'angolo di specializzazione è diventato così stretto (pur di trovare soggetti precedentemente sconosciuti di studi, tesi, e relazioni) che nessuno è più in grado di avanzare in una struttura più vasta...”. Una concezione politicamente corretta dovrebbe essere benvenuta in ogni campo nel momento in cui cerca nuove interpretazioni per vecchi problemi, ma l'eccezione presto si trasforma in una regola. E così si comincia difendendo la “vera storia” di quel particolare gruppo di indiani d’America e si finisce per decretare un attacco generalizzato contro ogni aspetto della civilizzazione americana.
Pensiamo ad alcune battaglie contro antologie di classici e libri “canonici”. Certo, l'idea di costruire una gerarchia con valori potenzialmente eterni e lontani da ogni considerazione sulle vicissitudini del presente ha i suoi limiti. Ma il relativismo assoluto, per converso, rischia di uccidere ogni tentativo di critica letteraria. Insomma non possiamo parlare di classici di letteratura, perché il Moby Dick di Melville è politicamente scorretto e, con esso, una lunga sfilza di titoli e autori che abbiamo sempre amato?
Ma c’è di più purtroppo. Il fenomeno è in crescita secondo i dati dell’Office for Intellectual Freedom e dell’American Library Association: ogni anno solo negli Stati Uniti d'America vengono banditi o censurati centinaia di titoli e la Bibbia resta tra i testi più colpiti. Diminuisce invece, per assuefazione, il numero di coloro che si oppongono alle iniziative censorie e cambiano i soggetti che si sentono offesi dal contenuto di un libro e che chiedono di vietarlo: sempre meno professori universitari e sempre più studenti. Come dire che il contagio della sindrome “pol. corr.” ha ormai preso piede sempre più nelle nuove generazioni, tanto in America quanto in Europa. Due giovani, Anna e Mia, hanno trovato il tempo di lanciare una petizione per protestare contro l’esposizione al Metropolitan Museum di un quadro del celebre artista Balthus raffigurante un’adolescente discinta (Therèse Dreaming). L’accusa: il dipinto è un invito alla pedofilia. Ma l’aspetto preoccupante è che hanno raccolto migliaia di firme di persone che la pensano come loro e che, se quel quadro dovesse davvero essere oscurato, la stessa sorte finirebbe prima o poi per toccare a una lunghissimo elenco di opere “degenerate”: dalle decorazioni osé sui vasi di terracotta dell’antica Grecia alle Demoiselles d’Avignon di Picasso. 
Oggi quando parliamo di fondamentalismo pensando all'Islam o al terrorismo, ma il “morbo” in questione è in qualche modo una forma di fondamentalismo culturale che coinvolge potenzialmente ogni genere di asserzione politica o culturale. Il dogma richiede giusti comportamenti sessuali, il corretto gusto letterario, lo stesso stile normalizzato nel parlare e nello scrivere. La situazione è peggiorata dopo l’11 Settembre 2011 e poi dopo l’attentato di Parigi alla sede di Charlie Hebdo del novembre 2015 perché è cresciuto il clima di odio e paura su ogni fronte. Il settimanale satirico francese, accusato per le vignette sacrileghe con protagonista il profeta dell’Islam Maometto, oggi continua a pubblicare i suoi strali umoristici e i suoi disegni al vetriolo ma lo spirito con cui lo fa non sarà mai lo stesso di prima, perché è aumentato il timore di usare tutta la libertà che abbiamo a disposizione in base a leggi che abbiamo conquistato in secoli di battaglie per il diritto alla libera espressione. Tutto questo nella situazione paradossale del trionfo indisturbato degli haters sui social network e sul web, dove gli umori più fetidi dell’ultimo (o primo) idiota possono colpire davvero chiunque su scala universale sotto la protezione dell’anonimato. In questa situazione di violenza (non solo verbale) liberata e amplificata è evidente che l’ansia della correttezza rischia di colpire in modo indiscriminato qualunque obiettivo: dai commenti insulsi sul web alla narrativa letteraria. Ma sono i tweet dei politici fuori controllo e le minacce via Facebook che andrebbero frenati, non i romanzi o le esposizioni d’arte. E se cresce il fronte di chi si sente minacciato da idee, usi e costumi dell’“altro”, che vede come pericolosi per la sua stessa sopravvivenza, si spiega anche il successo dei movimenti populisti e la rinascita di quelli di stampo fascista che a loro volta contribuiscono ad aggiungere benzina sul fuoco delle paure dell’Occidente. 
All’indomani dell’attacco terroristico “di matrice islamica” alle Torri gemelle, La Rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci, duro atto di accusa sulla decadenza della civiltà occidentale incapace di difendersi dal “nemico in casa”, ha scatenato una lunga polemica che ha probabilmente influito sulla mancata pubblicazione del saggio in alcuni dei Paesi in cui i libri dell’autrice erano normalmente tradotti. Ma se ogni dibattito anche acceso e furioso è sacrosanto, non si può dire lo stesso del tentativo di cancellare una tesi che non si condivide. Non esiste una buona “censura”, sia essa rivolta “contro l’arte degenarata”, come nel caso dei falò di libri nel Terzo Reich, o “a favore delle minoranze” come oggi. Il rischio che la minoranza finisca per diventare una “maggioranza dispotica” (secondo la definizione di Tocqueville) è molto alto e a volte c’è più intolleranza nel gesto del divieto, che vale nei confronti di tutti, che in quello di chi scrive che si rivolge comunque solo al pubblico consapevolmente interessato a leggerlo. Quindi nessun divieto alla pubblicazione del Mein Kampf hitleriano? Non credo che qualcuno pensi seriamente che un bando possa impedirne davvero la diffusione o frenare il risorgere di associazioni che si rifanno al nazismo. Sarebbe assai più utile obbligare alla pubblicazione del testo con un apparato di note che spieghino il delirio dell’imbianchino austriaco.
Christopher Hitchens derideva la tendenza censoria a stelle e strisce: “Il gruppo sovrappeso della fazione lesbica dei transessuali cherokee disabili chiede di essere ascoltato sui propri bisogni. Ma mai abbastanza. Da modo di essere radicali diventò in breve tempo un modo di essere reazionari”. Ma una satira parla soprattutto a chi già la pensa in modo diverso dal soggetto preso di mira. E anziché assuefarsi al nuovo corso o fare spallucce pensando ci siano questioni più importanti, varrebbe la pena di alzare il livello della discussione e controbattere seriamente alle iniziative più dannose. Non possiamo ridurci a definire un uomo disonesto “moralmente disorientato”, un ragazzo pigro “carente di motivazioni” e una persona brutta “cosmeticamente differente”. Per riprendere un paradosso efficace, non possiamo nemmeno trasformare uno sport come il tennis in un gioco corretto perché questo comporterebbe probabilmente l’abolizione della sua parte più elitista, la rete. E la soluzione al problema della “correttezza” non sta quasi mai nell’eliminare le differenze.